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CRUX ottobre 2017, John L. Allen Jr.
Sebbene il conflitto sanguinoso in Siria sia ancora incombente dopo sei lunghi anni, la sua fine però potrebbe risultare meno complicata che il ritorno ai rapporti relativamente fiduciosi che una volta esistevano nel Paese tra Musulmani e Cristiani. Molti profughi cristiani siriani dicono che dopo aver visto i loro vicini musulmani unirsi per attaccarli, è impossibile immaginare di potersi nuovamente fidare di loro…
La fine della guerra in Siria potrebbe essere più facile che la ricostruzione della fiducia tra cristiani e musulmani.
Rana, una rifugiata cristiana siriana che vive nella città di Zahle nel centro del Libano, con la sua bambina di un anno. (Credito: Ines San Martin / Crux.) |
ZAHLÉ, Libano – Per sei anni, la fine di una sanguinosa guerra civile scoppiata in Siria nel 2011 ha sfidato i migliori sforzi di diplomatici e strateghi militari. Eppure fermare i combattimenti potrebbe rivelarsi la parte più facile, rispetto alla ricostruzione della fiducia tra cristiani e musulmani che, per molti versi, è stata la prima vittima della guerra.
“Non riuscirò mai a perdonarli, mai”, dice Victoria, una rifugiata siriana fuggita da Aleppo e madre di due figli, che attualmente vivono in un appartamento sovvenzionato dalla Chiesa a Zahlé, Libano, nella valle della Bekaa. La sovvenzione è resa possibile da ‘Aiuto alla Chiesa che Soffre’, fondazione pontificia che supporta i cristiani perseguitati in tutto il mondo. Victoria chiede che il suo cognome non venga citato, dal momento che suo marito, Abed, è scomparso mentre era al lavoro in Siria poco prima che la famiglia fuggisse. Nel caso in cui egli sia ancora vivo, teme possa subire ritorsioni. A lungo termine vorrebbe avere un nuovo futuro per sé e per la sua famiglia “ovunque in Occidente”, dice, e la sua prima scelta sarebbe verso l’Australia.
“I nostri vicini musulmani quando sono iniziati i combattimenti, ci hanno attaccato”, dice. “Non riesco a perdonarli. Hanno distrutto tutto ciò che avevamo.”. Victoria è categorica: anche se la pace tornerà in Siria, lei ritiene “impossibile” vivere con gli stessi vicini senza temere continuamente che la stessa cosa possa accadere di nuovo.
Sana Samia, che è la responsabile per la raccolta di fondi e la gestione del progetto per l’arcidiocesi Greco-Melkita di Zahlé, ha affermato che uno degli obiettivi del loro sostegno ai rifugiati è quello di aiutare i Cristiani che vorranno tornare a casa quando sarà il momento giusto perchè possano riuscire a farlo con successo e, oltre all’istruzione e a un posto di lavoro, significa anche essere disposti a coesistere costruttivamente con i Musulmani. “Devono imparare a fidarsi di nuovo”, ha detto Samia, “ma è estremamente difficile a causa di tutto quello che hanno visto e sperimentato”.
Secondo i propri standard, l’impegno dell’arcidiocesi per aiutare i rifugiati è enorme, con una cifra di circa 2 milioni di dollari ogni anno, secondo padre Elian Chaar, che sovrintende alle finanze della chiesa.
A sua volta, questo è un riflesso della scala della crisi globale dei rifugiati nel paese, dal momento che il Libano ospita oggi una popolazione di rifugiati ufficialmente stimata a 1,5 milioni (anche se alcuni ritengono che il totale reale sia molto più alto) oltre ad una popolazione autoctona di poco più di 4 milioni. Come ha sottolineato il membro del congresso della California Issa Darrell in una recente udienza sul Libano, è come se gli Stati Uniti fossero costretti ad ospitare 100 milioni di rifugiati.
Padre Chaar ha dichiarato che la spesa di 2 milioni di dollari rappresenta all’incirca un aumento del 65% del bilancio dell’assistenza umanitaria dell’arcidiocesi da sei anni fa, con una gran parte del denaro proveniente dall’Aiuto alla Chiesa che Soffre. La chiesa locale sotto l’arcivescovo Isaam John Darwish sta facendo tutto quello che può per promuovere buone relazioni tra Musulmani e Cristiani. L’ospedale arcidiocesano, Tel Chiha, cura senza distinzione sia i Musulmani che i Cristiani, anche ospitando i pazienti musulmani con le loro esigenze dietetiche e di privacy, e lo stesso arcivescovo Darwish lavora attraverso le ONG che gestiscono i campi profughi retti da musulmani locali per fornire assistenza.
In ogni caso quale che sia il grande impegno che la Chiesa locale e i donatori internazionali attuino, la mancanza di fiducia può essere difficile da colmare.
Rana, che ha anch’essa chiesto di non dire il suo cognome, è una madre di tre figli dell’età di nove, cinque e un anno. In termini di personalità, è una persona solare e felice, nonostante viva in un micro appartamento con una piccola cucina, dove i materassi usurati devono essere messi di notte sul pavimento per permettere a tutti di dormire. È raro non vedere Rana sorridere e avere una risata pronta. Eppure, quando le si chiede se può perdonare i Musulmani che l’hanno attaccata, si spegne improvvisamente, e il “no” che pronuncia è categorico. “Ci hanno pugnalato nella schiena”, dice, riferendosi ai suoi vicini musulmani del suo villaggio siriano, dicendo che è fuggita a Zahlé proprio perché è noto per avere una forte maggioranza cristiana.
“Abbiamo vissuto sempre pacificamente con loro, ma hanno pianificato [l’attacco] sotto il tavolo”, dice. “Quando sono incominciati i combattimenti loro ci sono venuti dietro”. “Abbiamo vissuto insieme nello stesso posto”, dice Rana, “ma avevano odio per noi e ci hanno mentito”.
Racconta di aver visto che le persone con cui aveva vissuto e lavorato tutta la sua vita hanno iniziato a partecipare alle manifestazioni, chiedendo che i Cristiani fossero eliminati, e li ha poi osservati saccheggiare case cristiane che avevano preso di mira. “Non potrò mai fidarmi di nuovo”, dice. Inoltre, Rana confessa che la sfiducia è ora generalizzata verso tutti i Musulmani. Per scelta, lei non ha amici musulmani in Zahlé . Indicando la porta del suo piccolo appartamento, ci spiega che la sua vicina di casa è una donna musulmana, ma con lei non parla mai e non ha alcuna intenzione di farlo.
Naturalmente, per ogni storia di Musulmani Siriani che si sono uniti all’assalto anti-cristiano, ci sono anche resoconti di Musulmani che rischiano la loro vita per aiutare i loro vicini Cristiani. I Cristiani sono anche consapevoli del fatto che molti Musulmani stessi sono stati gli obiettivi dell’ISIS ed ora vivono una vita altrettanto difficile come la loro, perché anche quei Musulmani sono stati costretti a fuggire.
Padre Elie Chaaya,, accademico e pastore Greco-Melkita, però dichiara che la diffidenza non è generalizzata: nel villaggio dove si trova la sua parrocchia dice che c’è una popolazione mista di Cristiani e Musulmani sunniti e sostiene che i rifugiati cristiani possono vivere insieme ai musulmani “senza paura”.
Chaar, tuttavia, per la sua esperienza dice che il sospetto spesso corre abbastanza profondo.
“Quando i Musulmani Siriani cominciarono a venire qui, tutti li temevano, Libanesi e rifugiati allo stesso modo”, racconta. “Vuoi sapere, sì o no, se questo ragazzo è infettato con la cultura dell’ISIS? … Non puoi aiutare preoccupandoti che potrebbero essere estremisti, cosa che rende difficile fidarsi di loro”.
Samia dice, che nonostante la china sia ripida da risalire, ricostruire la fiducia è essenziale se i Cristiani vogliono rimanere in Medio Oriente.
“Vogliamo che i Cristiani siano in condizione di poter rimanere qui, nella terra dove nacque Cristo e dove nacque il cristianesimo”, dice. “Se vogliamo restare, dobbiamo essere in grado di vivere bene con i musulmani”. “Non abbiamo un’altra scelta”, conclude Samia.
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