CAOS SIRIA/ La guerra di notizie (false) alimentate da Usa e Al Qaeda
Le foto della piccola Sahar Dofdaa, morta di malnutrizione a 35 giorni di vita, hanno suscitato sdegno e riprovazione in occidente. Eppure i conti non tornano.
30 ottobre 2017 – di PATRIZIO RICCI – Sussidiario
La foto della piccola Sahar Dofdaa — scattata dal fotografo freelance siriano Amer Almohibany, un attivista anti-governativo che lavora per l’agenzia di stampa Afp — ha suscitato sdegno e riprovazione nell’opinione pubblica mondiale. La bambina è morta per malnutrizione a soli 35 giorni di vita in un ospedale all’interno della zona di de-esclation di Ghouta Est, un’enclave detenuta da varie formazioni ribelli a 15 km da Damasco. La piccola Sahar è deceduta perché la mamma — non in grado di allattarla perché anemica — non aveva disponibilità finanziarie per acquistare latte in polvere.
Le diffusione della foto della piccola Sahar (avvenuta a più di un mese dal decesso), ha scatenato una vasta campagna mediatica contro il governo siriano, responsabile secondo le opposizioni ed alcune Ong — fa eccezione l’Unicef che esorta tutte le parti — di assediare la popolazione civile e di bloccare gli aiuti umanitari o addirittura di sottrarre parte dei carichi, specialmente medicinali.
Però per una giusta comprensione della problematica bisogna tener presente vari fattori. Innanzitutto che Ghouta è un’area rurale molto vasta (più di 300 chilometri quadrati dove vivono 388mila persone), in cui esiste una produzione interna che soddisfa il fabbisogno di gran parte della popolazione. Ciononostante in alcune aree la devastazione causata dai combattimenti fa sì che il bisogno sia superiore alla potenzialità dell’economia locale. In questo contesto, l’ostacolo posto alle agenzie umanitarie in zona di guerra e le esigenze di sicurezza, certo determinano una scarsità di ingresso di convogli umanitari, che però non risulta siano mai stati interrotti dal 25 luglio, data in cui è stato sottoscritto l’accordo con i ribelli.
Va anche detto però che alla oggettiva difficoltà di rifornimento si aggiungono precise responsabilità da parte degli antigovernativi.
Vale a dire che i residenti degli insediamenti situati vicino alla capitale siriana non possono ricevere i prodotti a loro destinati dal programma alimentare dell’Onu perché i viveri vengono rubati, non distribuiti e stoccati nei magazzini delle milizie armate. Precisamente, ad essere responsabile di questa sottrazione è il gruppo “Failak Ar-Rahman”.
Questa milizia — formalmente “moderata” ma ideologicamente contigua al gruppo qaedista Tharir al Sham — ha emesso un comunicato indirizzato alle organizzazioni umanitarie, in cui ordina che tutte le forniture alimentari dovranno essere concentrate in luoghi speciali di stoccaggio e non trasferiti direttamente alla popolazione: sarà cura della milizia distribuire poi “equamente a chi lo merita”. In altre parole, la distribuzione di aiuti viene eseguita con criteri politici. Più precisamente, gli aiuti sono subordinati al reclutamento degli arruolabili: le famiglie di chi si rifiuta, sono private del necessario supporto alimentare.
Fedele a questa linea, il gruppo Failak Ar-Rahman il 24 settembre ha sequestrato un intero convoglio umanitario che trasportava cibo e medicine per accentrare il carico nei propri magazzini.
Altre difficoltà che inibiscono l’approvvigionamento sono i continui combattimenti tra opposte milizie che si succedono quasi quotidianamente. Gli scontri si susseguono continuamente tra Jaysh Al-Islam e Faylak Al-Rahman, nonostante i ripetuti tentativi di riconciliare i due gruppi islamici. Inoltre, poiché Jaysh Al-Islam ha accettato il cessate il fuoco con l’esercito arabo siriano (Saa), è continuamente bersaglio da parte del gruppo Tahrir Al-Sham (affiliato ad Qaeda).
Alle centinaia di vittime civili di questi scontri si aggiungono quelle causate dalle risposte dell’esercito siriano, quando attaccato dai gruppi armati o a seguito delle operazioni militari contro Tahrir Al-Sham, non incluso nel cessate il fuoco, risponde alle ostilità.
Dalla parte opposta, anche la popolazione della capitale Damasco soffre sotto i frequenti lanci di ordigni da parte dei ribelli, nonché degli attentati delle autobomba, mai cessati neanche dopo l’accordo sottoscritto.
Si noti che il 18 agosto 2017 a Ginevra tutti i gruppi ribelli — escluso Tahrir Al-Sham — hanno firmato l’accordo di adesione al cessate il fuoco nella zona di de-escalation “Eastern Ghouta”; secondo il documento, il ribelli si sono impegnati a cessare tutte le ostilità, inclusi gli attacchi contro truppe governative e i civili. L’accordo permette il libero transito dei feriti, dei malati e l’ingresso dei convogli umanitari.
Tornando alla penuria alimentare c’è da sottolineare che il problema non è solo di Ghouta, è di tutta la Siria: avviene anche nelle zone libere per la disoccupazione galoppante e per l’inflazione alle stelle che — complice l’embargo decretato dai paesi occidentali e dagli alleati arabi — secondo fonti Onu, coinvolge 3,5 milioni di siriani.
Allora appare chiaro che la morte della piccola Sahar si inserisce dentro la grave problematica della scarsità alimentare generalizzata. Per questo occorre, per non cadere in strumentalizzazioni fuorvianti, contestualizzare i fatti di cronaca con la realtà del luogo e connettere i vari avvenimenti tra di loro. In questa prospettiva, occorre ricordare che l’assedio dei centri urbani è stato praticato anche dalla coalizione internazionale a Mosul e Raqqa generando le stesse problematiche.
In questi casi, ad una situazione di lenta agonia, la coalizione internazionale ha preferito optare per un intervento risolutivo che ponesse parola “fine” ad una situazione insostenibile.
In un’analoga situazione, è innegabile che il governo siriano voglia legittimamente ristabilire la sicurezza intorno la capitale. Ad esso si contrappongono i ribelli più radicali, coscienti che non potranno mai aspirare ad alcun posto di rilievo nella Siria futura. Così da adesso in poi, accanto a drammi veri, c’è da aspettarsi che ci saranno continui tentativi di strumentalizzazione dell’informazione. Lo scopo è quello di sabotare gli accordi di pace o almeno alzare la posta in gioco per rendere il governo siriano più debole, quindi più malleabile.
Infatti, sulla base della creazione di zone di de-escalation, si dovrebbe passare presto alla fase successiva, un “Congresso dei popoli della Siria”, una tavola comune pensata affinché tutti i gruppi etnici e religiosi, il governo e l’opposizione possano prendervi parte.
Secondo fonti governative siriane, questo evento si dovrebbe tenere a Damasco nella seconda metà di novembre. La conferenza di pace di Damasco vedrà la partecipazione di più di duemila persone, che rappresenteranno tutte le forze materiali coinvolte nel conflitto. A seguire, sempre a novembre, è prevista il 28 una sessione dei negoziati di pace, a Ginevra.
La domanda è: a chi conviene che la situazione nella enclave si estremizzi suscitando la riprovazione internazionale e popolare? A chi conviene che ora il governo siriano venga messo sotto accusa vanificando gli sforzi fatti e giustificando il riarmo delle milizie e la prosecuzione della guerra?
La risposta a queste domande è la chiave di lettura della situazione attuale e delle vicende che verranno.
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