Si sta avvicinando il cinquantesimo anniversario della morte di Giovannino Guareschi (22 luglio 1968) e vogliamo idealmente mettere un fiore sulla sua tomba parlando di un bel libro di Alessandro Gnocchi, che di Guareschi è il nostro maggior studioso. Il libro si intitola Lettere ai posteri di Giovannino Guareschi (Marsilio, 144 pagine, 16 euro) ed è un viaggio, dolente e divertente insieme, tra gli allarmi che, a modo suo, con una miscela di umorismo, sarcasmo e poesia, il creatore di Don Camillo e Peppone lanciò ripetutamente, sul finire della sua vita terrena, davanti all’inesorabile avanzata dei mostri partoriti dalla nuova Chiesa postconciliare, tutta progressismo e riformismo, impegnata a sbarazzarsi della tradizione e, con sommo sprezzo del ridicolo, a mostrarsi più moderna dei moderni.
Gli interventi riportati e commentati da Gnocchi vanno dal 1963 al 1968, gli ultimi cinque anni di vita di Guareschi. Mezzo secolo fa: un’eternità. Eppure ecco lì la stessa logica odierna fotografata ai suoi albori, la stessa spasmodica ricerca di aggiornamento, pur di piacere al mondo e di raccogliere consensi dai nemici della fede cattolica. Sotto il suo sguardo sconsolato e i suoi baffoni via via più tristi, Giovannino vedeva l’avanzare di una Chiesa nella quale l’aggettivo dialogante faceva rima con protestante, che abbandonava gli altari per farne «tavole calde», che si sbarazzava con noncuranza del latino e di tutte le meraviglie della liturgia giunte a noi attraverso i secoli, che metteva in soffitta Cristi, Madonne e Santi perché se ne vergognava, che trasformava la Santa Messa in un’assemblea eccetera eccetera.
Le lettere che Guareschi, in mezzo a quel disastro, inviò al suo Don Camillo sono tutte da leggere e meditare. Il parroco che parla con il Crocifisso si ritrova in un mondo nuovo in cui il nemico non è più il vecchio Peppone, non è più il Partito comunista, non sono più i compagni tutti casa e sezione, ma è la nuova Chiesa che va a braccetto con i marxisti à la page e la sinistra snob, la nuova Chiesa che pur di essere ammessa al grande ballo delle idee dominanti getta alle ortiche duemila anni di sapienza cristiana e insegue le mode, che non parla più di salvezza ma di liberazione, che sembra non credere più nei sacramenti e abbandona i vecchi dogmi per abbracciare il nuovo super-dogma del dialogo, che non si vede più come la Sposa di Cristo ma come un popolo.
Noi oggi, mezzo secolo dopo, sperimentiamo i risultati di ciò che Guareschi aveva già capito benissimo assistendo ai prodromi dello sfacelo. Cristo espulso dalla casa di Dio, l’ostia trasformata in sandwich (oggi diremmo fast food) da consumare in piedi, teologi atei osannati come profeti, preti trasformati in telecronisti con microfono annesso, santi e beati presi in considerazione solo se pacifisti e socialmente impegnati (si leggano le pagine che Guareschi dedica all’ormai prossimo beato La Pira, al «lapirismo» e alle «lapirate»). Ma cinquant’anni fa, per lo meno, i conquistadores, per quanto insensati, erano animati da un sacro fuoco, mentre oggi ci propinano gli ammuffiti rimasugli del loro stesso pensiero. Cinquant’anni fa, per lo meno, la nuova liturgia, per quanto scellerata, aveva un che di vitale, mentre oggi non produce che stanche rimasticature e nessuno sa neppure perché la Santa Messa da sacrificio è diventata happening.
A che serve rivangare? Se lo chiede l’amico Gnocchi, che dice chiaramente di non avere ricette in tasca, e ce lo chiediamo anche noi, specie di fronte a certe cronache.
Si prenda il caso della proposta del cardinale Coccopalmerio, che ha suggerito al papa di inserire nel Codice di diritto canonico una nuova norma, dedicata al «grave dovere», per il fedele cattolico, di migliorare l’ambiente naturale.
Sapevamo che dopo la Laudato sì’ un’onda anomala di ecologismo si è abbattuta sulla Chiesa cattolica, ma non immaginavamo che si potesse arrivare a tanto. Già che ci siamo, la Santa Sede potrebbe chiedere la stesura del nuovo canone a Greenpeace.
Ma ecco come il cardinale ha proposto la cosa: «Il Codice di diritto canonico, all’inizio del II libro, ai canoni 208-221, sotto il titolo “Obblighi e diritti di tutti i fedeli”, presenta un elenco di tali obblighi e diritti, e tratteggia per tale motivo un autorevole identikit del fedele e della sua vita di cristiano. Purtroppo nulla si dice di uno dei doveri più gravi: quello di tutelare e di promuovere l’ambiente naturale in cui il fedele vive. La mia proposta – continua il porporato – sarebbe di chiedere al Papa, da parte del Dicastero per i testi legislativi, l’inserzione nei canoni che ho appena citato di un nuovo canone che suoni pressappoco in questo modo: “Ogni fedele cristiano, memore che il creato è la casa comune, ha il grave dovere non solo di non danneggiare, bensì anche di migliorare, sia con il normale comportamento, sia con specifiche iniziative, l’ambiente naturale nel quale ciascuna persona è chiamata a vivere”».
Bene, bene. Ma perché non fare di più e di meglio? Per esempio, alla luce dei nuovi, pressanti doveri ispirati all’ideologia ecologista, si potrebbe riscrivere il canone 211. Come dite? Che non sapete che cosa stabilisce il canone 211? Eccolo: «Tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di impegnarsi perché l’annuncio divino della salvezza si diffonda sempre più fra gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo». Annuncio divino? Salvezza? Andiamo! Il nuovo paradigma ha bisogno di ben diverse prospettive. Riscriviamo dunque così: «Tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di impegnarsi perché la difesa dell’ambiente naturale si diffonda sempre più fra gli uomini di ogni tipo e di ogni luogo». Il che permetterebbe, fra l’altro, di eliminare il problema del proselitismo. Il quale, lo sappiamo, in base al nuovo paradigma va evitato come la peste.
E che dire del simpatico padre Zanotelli, che ha auspicato la trasformazione delle chiese cattoliche in ostelli per i clandestini ed ha promosso un digiuno a staffetta (stile Pannella buonanima) in piazza San Pietro? E di monsignor Nogaro, vescovo emerito di Caserta, che, aderendo all’iniziativa zanotelliana, si è detto moralmente pronto, da uomo di fede, a trasformare tutte le chiese in moschee per salvare la vita dei poveri e degli infelici?
Si resta senza parole. Ma tacere non si può. Ce lo ricorda il Crocifisso in persona, il quale, quando Don Camillo gli chiede che cosa fare davanti al disastro, risponde: «Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo nella terra resa ancora più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede a mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più: ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomini di molte parole e nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri».
E poi c’è quel pensiero di Aleksandr Solženicyn, giustamente riportato da Gnocchi alla fine. Quando la menzogna sembra dominare dappertutto, c’è sempre una cosa che possiamo fare: rifiutare di partecipare personalmente alla menzogna, così che essa «non domini per opera mia!».
In una delle sue lettere, Guareschi scrive al parroco di Brescello: «Don Camillo, tenga duro. Quando i generali tradiscono, abbiamo più che mai bisogno della fedeltà dei soldati». E allora coraggio e avanti. «Come spesso accade quando intellettuali, teologi e pastori perdono la testa – annota Alessandro Gnocchi – l’ancora più salda diventa il sensus fidei dei fedeli ordinari. E si può star certi che, dove è sopravvissuto il vero senso della fede, cova anche il sensus traditionis”.
Sul punto, Giovannino Guareschi fu piuttosto chiaro quando, immaginando una delle scenette con protagonista la famiglia Bianchi (che lui si era inventato per raccontare lo scontro fra le diverse anime dei cattolici) scrisse il seguente dialogo tra il prete progressista don Giacomo, il cattolico progressista signor Bianchi e la cattolica senza etichette signora Bianchi:
«Bisognerebbe formare un comitato di parrocchiani di idee moderne» continuò don Giacomo.
«Io ci sto!» affermò fiero il signor Bianchi.
«E lei, signora?» domandò il giovane prete alla signora Bianchi.
«No. In una famiglia un cretino basta!».
Aldo Maria Valli
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