[ad_1] Se ai nostri giorni la politica economica europea ed italiana tenesse conto di questo semplice ragionamento di Giorgio La Pira, usciremmo subito dalla crisi. La crisi attuale infatti non ha niente di predestinato ma è il frutto di di una metodologia sbagliata che deriva da un pensiero sbagliato. La motivazione della politica, dell’economia dovrebbe essere uno solo: “dar lavoro a tutti, dare il pane quotidiano a tutti; sopra queste finalità prime, improrogabili, elementari, deve essere costruito l’intero edificio dell’economia, della finanza, della politica, della cultura: la libertà medesima, respiro della persona, è in certo modo preceduta e condizionata da queste primordiali esigenze del lavoro e del pane ” (…)
“E’ questa l’impostazione che deve avere l’economia secondo il Vangelo (perché una impostazione umana dell’economia attira la benedizione di Dio e opera dei veri miracoli, incognita di ogni calcolo generoso!) :il bilancio dello Stato deve essere compilato con riferimento non più al danaro ma al potenziale umano disponibile: tanti uomini da occupare, tanti danari da spendere. Deve diventare un bilancio a “scala” umana.”
[su_heading style=”modern-2-blue” size=”20″ align=”left”]La politica economica e finanziaria del Vangelo [/su_heading]
di Giorgio La Pira
L’attesa della povera gente
Cronache sociali, n. 1, del 15 aprile 1950.
Tratto, con qualche modifica, da Federico Caffè, La dignità del lavoro, a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi, Roma 2014.
La politica economica e finanziaria del Vangelo
I.
L’attesa della povera gente (disoccupati e bisognosi in genere)? La risposta è chiara: un governo a obiettivo, in certo modo, unico: strutturato organicamente in vista di esso: la lotta organica contro la disoccupazione e la miseria.
Un governo, cioè, mirante sul serio (mediante l’applicazione di tutti i congegni tecnici, finanziari, economici, politici adeguati) alla massima occupazione e, al limite, al “pieno impiego”.
Altra attesa “rispetto al governo” la povera gente né aveva, né ha: senza saperlo essa fa propria la tesi dell’”Economist” del febbraio scorso: il “pieno impiego” è l’imperativo categorico fondamentale di un governo che sia consapevole dei compiti nuovi affidati agli Stati moderni.
Ma volere seriamente la massima occupazione e, al limite, il pieno impiego, significa accettare alcune premesse e volere alcuni strumenti senza l’uso dei quali non è possibile raggiungere quel fine.
II.
C’è anzitutto una premessa di natura squisitamente cristiana: è vano “per un governo “parlare di valore della persona umana e di civiltà cristiana, se esso non scende organicamente in lotta al fine di sterminare la disoccupazione e il bisogno, che sono i più terribili nemici esterni della persona.
Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima e in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose. 1
Vi sono disoccupati? Bisogna occuparli. La parabole dei vignaioli è decisiva in proposito: tutti i disoccupati che nelle varie ore del giorno oziavano forzatamente nella piazza “perché nessuno li aveva ingaggiati: nemo nos conduxit!” furono occupati; esempio caratteristico di “pieno impiego”: nessuno fu lasciato senza lavoro (Mt. 20,7).
Vi sono creature bisognose? Affamati? Assetati? Senza tetto? Ignudi? Ammalati? Carcerati? Bisogna tendere ad essi efficacemente il cuore e la mano (Mt. XXV, 31-46): l’esempio di questa “propensione” all’intervento è fornito dal Samaritano: scese da cavallo e prese minutamente cura del ferito (Lc. 34).
E si badi: non si tratta soltanto (come spesso si crede) di atti di carità confinati nell’orbita di azione di singoli: impegno di amore, cioè, che investe soltanto le singole persone: no, si tratta di un impegno che parte dai singoli e che investe l’intiera struttura e la essenziale finalità del corpo sociale 2.
Costruire una società cristianamente significa appunto costruirla in modo che essa garantisca a tutti il lavoro, fondamento della vita, e, col lavoro, quel minimo di reddito necessario per il “pane quotidiano” (cioè vitto, alloggio, vestiario combustibile, medicine, per sé e per la propria famiglia) 3.
Solo così si può realizzare il fine che san Tommaso assegna a una società cristiana: garantire a tutti la possibilità di quel “riposo” restauratore e della preghiera che è l’atto che segue. Per dir così, al lavoro, che costituisce l’operazione ultima, la più delicata e la più pacificante e gioiosa della persona 4.
E’ questa una premessa che gli uomini di governo devono tener ferma nella loro mente: stella polare della loro azione politica, giuridica, finanziaria: dar lavoro a tutti, dare il pane quotidiano a tutti; sopra queste finalità prime, improrogabili, elementari, deve essere costruito l’intero edificio dell’economia, della finanza, della politica, della cultura: la libertà medesima, respiro della persona, è in certo modo preceduta e condizionata da queste primordiali esigenze del lavoro e del pane 5.
Orazione fondamentale del Signore: Dacci oggi il nostro pane quotidiano!
III.
Questa fondamentale premessa cristiana è, del resto, convalidata da una altrettanto fondamentale premessa economica: premessa, è vero, che non vige nell’orbita dell’economia classica, ma che è posta a base di tutto l’edificio dell’economia nuova 6: la disoccupazione è un consumo senza corrispettivo di produzione: è perciò, uno spreco di forze produttive (oltre che essere un disastramento morale e spirituale della persona) 7.
E la ragione è evidente: i disoccupati esistono, se esistono devono vivere, per vivere devono consumare. Consumare senza produrre: è questo il paradosso economico della disoccupazione.
La povera gente “che ha buonsenso” non si dà pace quando riflette su questa incongruenza dell’attuale struttura dell’economia: ma come, con tante case da costruire, con tante terre da bonificare, con tanti beni essenziali da produrre, con tante “aree depresse” da elevare, si può permettere l’esistenza di tanti milioni di braccia operose?
E si tenga conto, inoltre, del fatto del “moltiplicatore”: per uno che cessa di lavorare cessano di lavorare altri (concetto tecnico in Di Fenizio, Economia politica, pp. 456 e segg.).
Come mai sia possibile questo vero “impazzimento” 8 economico e morale la povera gente non lo capisce; essa comprende che c’è qualcosa di specioso, di fondamentalmente errato, nella risposta inumana che comunemente si dà per giustificare questo triste fenomeno della disoccupazione: Non c’è denari!
Il problema è complesso, si sa, ma una soluzione positiva di esso non può non esistere. La Provvidenza dà in proposito un insegnamento sicuro: per ogni bambino che nasce, nascono due fonti di latte destinate ad alimentarlo!
E poi c’è sempre l’altra risposta: Mancano i danari? Eppure vivere bisogna, per vivere bisogna consumare e per consumare bisogna spendere: quindi, in ultima analisi, i danari si trovano sempre, necessariamente!
Qui viene proprio da dire: più che i danari manca l’impegno necessario per mettere in circolazione il talento unico messo sotto terra! E’ un problema di “dinamica” della volontà, della tecnica inventiva, della finanza, dell’economica, della politica 9.
Che queste intuizioni della povera gente (basate sulle cose e sul Vangelo) non siano scientificamente errate lo dimostra l’impostazione delle più moderne teorie economiche.
Sentite Beveridge (Relazione §198) che riporta da Keynes: “E’ meglio occupare gente a scavare buche e a ricolmarle che non occuparla affatto (cfr. §301): le persone occupate inutilmente daranno occupazione ad altre con quello che guadagnano e spendono. E’ meglio occupare gente, comunque venga trovato il danaro per pagarle, che non occuparle affatto: l’ozio forzato è uno spreco di risorse materiali e di vite umane che non potrà mai essere rimediato e che non può difendersi con ragioni di ordine finanziario”.
A proposito del “moltiplicatore”, il Beveridge soggiunge: “Ogni atto ha una catena infinita di conseguenze; perciò l’atto di dare impiego a un disoccupato e di pagargli un salario non si esaurisce lì. L’uomo che viene assunto e percepisce un salario superiore alla somma che egli riceveva a titolo di sussidio per la disoccupazione o di assistenza (quando la riceve!) spenderà per la maggior parte o interamente il suo reddito addizionale in beni e servizi forniti da altri e darà occupazione ad altri. Costoro a loro volta avranno un reddito maggiore: ne spenderanno una parte dando luogo a una nuova occupazione e così via. Fintanto che in una comunità vi saranno dei disoccupati, il dare un’occupazione retribuita a uno di essi aumenterà il numero degli occupati di più di una unità, e aggiungerà alla produzione nazionale più di quello che egli da solo produce. L’effetto primo verrà moltiplicato grazie ai secondi e ai terzi effetti”.
Questa premessa economica “che indica l’occupazione come essenziale finalità di un’economia sana a causa degli incrementi produttivi che necessariamente ad essa si collegano” è ora divenuta la stella polare della politica economica dei più grandi Stati del mondo: prescindendo dagli Stati a struttura comunista, ad essa si ispirano la Gran Bretagna (con la politica del pieno impiego sostanzialmente condivisa da tutti i partiti) 10 e gli stessi Stati Uniti di America 11. L’obiettivo della massima occupazione sta alla base della politica economica che gli Stati Uniti perseguono all’interno e all’estero: il piano Erp medesimo non esiste, in ultima analisi, senza un intrinseco rapporto con tale obiettivo 12.
Occupare tutte le unità lavorative, e quindi incrementare la produzione e, con essa, il tenore di vita degli uomini: è l’imperativo categorico che si impone agli Stati e ai governi del tempo nostro (“Economist”, cit.) 13.
IV.
Se la disoccupazione deve essere eliminata “obiettivo fondamentale di uno Stato moralmente, socialmente ed economicamente sano “devono essere voluti e usati i mezzi per eliminarlo: questi mezzi si riassumano in uno solo: la spesa.
E infatti cosa è, in ultima analisi, la disoccupazione? Spesa non fatta: occupazione e disoccupazione si analizzano in queste posizioni: spesa che determina occupazione e, quindi, produzione; carenza di spesa che determina deficienza nella domanda dei beni e quindi disoccupazione, e quindi, carenza di produzione 14.
Il perno di tutta la nuova teoria economica sta qui, Keynes esplicitamente lo dice: l’occupazione dipende dalla spesa, e la spesa può essere di due specie: spesa di consumi, spesa per l’investimento. Quel che viene risparmiato, ossia quel che non viene speso in beni di consumo, crea occupazione soltanto se viene investito, o cioè speso per accrescere l’attrezzatura di beni capitali, quali le fabbriche, i macchinari, le navi, o ad accrescere le scorte di materie prime (Beveridge, op. cit. §120) 15. Proporzionare la spesa “e, quindi, la produzione” alla occupazione: ecco il problema.
V.
Anzitutto, chi opererà questo proporzionamento? Basterà, cioè, che lo Stato decida alcuni provvedimenti finanziari economici e politici a favore dell’iniziativa privata perché si operi automaticamente la spesa voluta e, perciò, il desiderato assorbimento della manodopera disoccupata?
No: che lo Stato abbia il dovere di favorire l’iniziativa privata in modo da orientare, stimolarne e accelerarne il ritmo produttivo e, quindi, la capacità di spesa e di occupazione, non c’è dubbio; ma non v’è parimenti dubbio che per questa via indiretta non si opererà mai il pieno impiego della manodopera: “l’automatico proporzionamento” è una di quelle pseudoarmonie economiche che l’esperienza dolorosa e permanente della disoccupazione ha sempre smentito.
“La rivoluzione operata nel pensiero economico da J.M. Keynes” dice Beveridge, op. cit. §140, ”e aiutata dall’esperienza degli anni dopo il 1930 sta nel fatto che non viene più assunta come sicura l’adeguatezza della domanda di manodopera. L’analisi keynesiana porta alla conclusione che, anche astraendo dalla depressione ciclica, vi può essere deficienza cronica o pressoché cronica nella domanda complessiva di manodopera, per cui la piena occupazione si presenta fuggevolmente in casi rari (cfr. §25; §120 e §126) 16.
Non bastano, quindi, i provvedimenti del primo tipo: bisogna prenderne altri di tipo diverso. Bisogna, cioè, che lo Stato intervenga direttamente con un piano organico di investimenti capaci di operare, a scadenze determinate, il graduale assorbimento della manodopera disoccupata; questi “massicci” investimenti pubblici costituiscono, del resto, uno stimolo efficacissimo per gli investimenti privati.
Il proporzionamento, perciò, della spesa all’occupazione non può essere determinato e attuato che dallo Stato 17: spetta al governo la determinazione del quanto della spesa (in base al numero discriminato dei disoccupati), calcolando la parte di spesa indiretta (operata dall’iniziativa privata per effetto dei provvedimenti di cui si è parlato) e quella di spesa diretta (mediante piani organici di attività produttiva pubblica).
Circa il numero discriminato dei disoccupati, Fanfani (in “Oggi”, 2 marzo 1950) 18 ci dà alcuni dati che possono essere una base per il calcolo della spesa. “Grosso modo”, egli dice, “detratta la disoccupazione temporanea fisiologica o di frizione, ci sono in Italia un milione e seicentomila uomini, donne e ragazzi maggiori di 14 anni che vorrebbero guadagnarsi il pane e non possono. Rimossi alcuni dei ricordati ostacoli (di cui egli ha parlato prima), l’iniziativa privata potrebbe ridurre i senza lavoro a un milione e quattrocentomila: ai duecentomila giovani fra i 14 e i 18 anni in esso compresi si dovrebbe provvedere con corsi di addestramento professionale spendendo venti miliardi. Per dar lavoro al restante milione e duecentomila occorrerebbe nel primo anno disporre in media di seicento miliardi di lire”.
I calcoli di Fanfani sono quelli di un realizzatore: di uno, cioè, che vuole fare e che, pur non nascondendosi l’estrema difficoltà dell’impresa, è deciso ad attuarla ad ogni costo; sono calcoli fondati sulla realtà e lievitati dalla speranza (per chi agisce a favore dei propri fratelli c’è sempre, immancabilmente, una provvidenza materna che diventa moltiplicazione misteriosa ma reale di aiuti: è un’attiva incognita finanziaria ed economica di cui bisogna sempre tener conto, come dato certo, nella definizione dei bilanci). I disoccupati sono forse di più? Ci vogliono più di seicento miliardi? Ma il problema si pone in altro modo, e cioè: se si spendono realmente, produttivamente e rapidamente (spezzando tutte le invecchiate e arteriosclerotiche resistenze della burocrazia) seicento miliardi di investimenti pubblici, si riuscirà davvero “il lavoro produce lavoro!” a occupare circa un milione di disoccupati; ma un milione di disoccupati occupati significa una vera rivoluzione economica nel nostro Paese. C’è il “mistero” produttivo del moltiplicatore (la moltiplicazione dei talenti, non bisogna mai dimenticare il valore reale del Vangelo!): un milione di occupati in più significa la scomparsa quasi integrale della disoccupazione in Italia 19.
VI.
Ma la spesa pubblica non esclude quella privata, anzi la presuppone: perché la disoccupazione sia assorbita è necessario che sia orientata, stimolata e accelerata la spesa privata. Bisogna, anzi, in certo modo, calcolare il volume di spesa che deve essere prodotto da questo stimolo e da questo acceleramento: ai seicento miliardi preventivati di spesa pubblica bisogna aggiungerne altri di spesa privata. Quanti? La risposta non è facile a darsi: se usiamo i criteri di Fanfani, possiamo dire non meno di cento miliardi.
L’obbiezione di fondo è facile: una nuova spesa privata di queste dimensioni in una situazione di “depressione” economica come quella attuale? Con una politica finanziaria che è orientata verso la contrazione della circolazione della spesa? Con un’instabilità grave di tutto il settore agricolo dove l’impiego e la circolazione del capitale provato tendono, in certo senso, a sparire?
La risposta è chiara: questa nuova spesa privata suppone l’eliminazione di questi gravi ostacoli allo “scorrere” del risparmio verso gli investimenti: suppone, cioè, un cambio di orientamento nella politica finanziaria ed economica (monetaria, creditizia, fiscale) del governo; e suppone anche una stabilizzazione sociale nel settore dell’agricoltura: pensare meno alle leggi “che servono poco” e più alla spesa “che serve molto” (costruzione di case, industrializzazione delle culture, bonifica dei terreni incolti e, in genere, stabile occupazione del bracciantato).
Dette queste cose “che concernono il governo” bisogna dirne altre che concernono i privati: il risparmio ha valore solo come strumento di spesa capace di creare nuova occupazione e, quindi, nuova produzione. Altra legittimità sociale esso non possiede: è una legge economica (il risparmio è di per sé un fatto puramente negativo: significa non spendere; il risparmio in sé non ha alcuna virtù sociale. La virtù sociale del risparmio da parte di una persona dipende dal fatto che vi sia qualche altro che desidera spendere tale risparmio. Beveridge, op. cit. §123), ed è anche una legge della vita morale: Non vogliate tesaurizzare, dice categoricamente il Vangelo (Mt. VI, 19). La condanna del risparmiatore avaro è tremendamente rappresentata nel pauroso che empì i suoi granai senza pensare alla morte che lo attendeva (Lc. XII, 16): risparmiare per spendere o far spendere (il talento non doveva essere sotterrato ma almeno consegnato ad altri capaci di metterlo a frutto (Lc. XIX, 22; Mt. XXV, 14-30); questa è la “politica economica e finanziaria” del Vangelo.
Ecco ciò che i privati possessori di risparmi devono capire: è una tremenda responsabilità quella che grava sopra di loro, morale ed economica insieme: perché il risparmio non speso equivale a lavoro mancato e, quindi, a disoccupazione aumentata.
Ecco perché il problema del risparmio “cioè il problema delle fonti di spesa” è il problema fondamentale, in certo modo, di una comunità statale: sopra di esso poggia, appunto, come su una base, l’edificio della piena occupazione (cfr. Beveridge, op. cit. §124).
Ma la disoccupazione creata o aumentata significa lesione grave dell’ordine morale, dell’ordine economico e dell’ordine sociale; su questa lesione, come sul terreno propizio, si radicano le piante parassite dell’odio e del sovvertimento (cfr. Beveridge, Prefazione). VII.
Bisogna spendere: deve spendere lo Stato, devono spendere i privati. Ma come? Disordinatamente o, invece, organicamente, cioè alla stregua di certi programmi di produzione che si distendono nel tempo (spesa pianificata a lungo termine?). La risposta è ovvia: spendere organicamente secondo piani determinati (Beveridge, §32, p. 202; §209). Non bisogna lasciarsi impressionare dalle parole: “pianificare” significa mettere ordine, orientare verso uno scopo; significa che il sistema economico e finanziario di uno Stato, anzi “l’intero sistema economico e finanziario e mondiale” non può più essere lasciato a se stesso, ma deve essere finalizzato in vista di scopi proporzionati all’occupazione e ai bisogni essenziali dell’uomo. Lo stesso piano Erp, in ultima analisi, ad altro non dovrebbe mirare. Chi vuol costruire saldamente una casa e chi vuol fare efficacemente una guerra (qui: guerra efficace alla disoccupazione e alla miseria) 20 deve “pianificare” la propria azione affinché essa dia un risultato felice (Lc. XIV, 28). Quali obiettivi avranno questi piani? Evidentemente essi saranno scelti secondo un criterio di priorità sociale (Beveridge, §35; pp. 198, 214 e segg.). Vi sono dei bisogni essenziali che attendono di essere rapidamente soddisfatti: case da costruire (perché non estendere e accelerare i piani esistenti?), energia da produrre, terre da bonificare, aree depresse da industrializzare; quanto bene da compiere, quanto amore concreto da seminare, quanta speranza e quanta gioia da donare!
VIII.
Come finanziare questi piani? Dove trovare i danari occorrenti per questa spesa? Ecco: prima di rispondere a queste domande “che potrebbero provocare la risposta pigra: non ci sono i danari perché il bilancio dello Stato è in deficit “bisogna fare una premessa: l’ozio forzato è uno spreco di risorse materiali e di vite umane, che non potrà mai esser rimediato e che non può difendersi con ragioni di ordine finanziario (Beveridge, §198). Bisogna capovolgere il modo comune di impostazione del problema, cioè proporzionare la cassa alla spesa e la spesa all’occupazione; si comprende, è un’impostazione del problema che esige un grande sforzo di riflessione, di volontà creatrice. Partire dall’uomo, cioè dal fine, non dal danaro, cioè dal mezzo.
E’ questa un’impostazione secondo il Vangelo (perché una impostazione umana dell’economia attira la benedizione di Dio e opera dei veri miracoli, incognita di ogni calcolo generoso!) ed è anche un’impostazione economicamente sana (perché tra l’altro i danari per dar da vivere ai disoccupati bisogna trovarli necessariamente).
Questa impostazione esige che il Ministro del Tesoro (o quello del Bilancio o quello delle Finanze) rovesci, per dir così, il suo modo usuale di considerare la finanza dello Stato e il bilancio dello Stato 21; tale bilancio deve essere compilato con riferimento non più al danaro ma al potenziale umano disponibile: tanti uomini da occupare, tanti danari da spendere. Deve diventare un bilancio a “scala” umana (Beveridge §182) 22.
Questo “rovesciamento”, del resto, non è poi così nuovo nella politica economica e finanziaria dei grandi Stati moderni: a parte gli Stati a struttura comunista, i grandi Paesi dell’Occidente (dalla Gran Bretagna all’America) costruiscono ormai i loro bilanci “anche se con graduazioni diverse” in vista del pieno impiego e del più alto tenor di vita della popolazione 23.
E allora in concreto cosa fare? Ecco, bisogna cominciare: chi ben comincia è a metà dell’opera! Il Ministro del Tesoro lo sa, basta iniziare con poco per muovere molto: con appena duecento milioni di erogazioni effettive (a tutto dicembre 1949), il piano case Fanfani ha già provocato investimenti effettivi, e quindi lavoro, per dieci miliardi di lire!
Dove trovare le “fonti”, le “buche” nelle quali stagna il risparmio? Vorrei fare queste domande: si può sinceramente affermare che il fondo lire non avrebbe potuto costituire (e non lo può ancora) “intelligentemente manovrato” una fonte preziosa di tanto lavoro produttivo?
Una manovra veloce di trecento miliardi avrebbe potuto, in questi due anni, portare tanta acqua al terreno arso della nostra disoccupazione (per uno studio attento e non certo sospetto, cfr. Valerio in “Rivista di Politica economica”, gennaio 1950).
E poi c’è l’altra faccia del fondo lire: quella dell’impiego dei dollari Erp per l’acquisto di attrezzature industriali: anche qui quale pigrizia e, cioè, quanto lavoro impedito e quanta produzione non ottenuta (dice Valerio p. 21: “L’Italia è, quindi, al penultimo posto, seguita solo dalla Germania per la quale sono evidenti le giustificazioni”).
Ancora: e quei 466 miliardi di debitori diversi (situazione Banca d’Italia al 31 dicembre 1949) cosa rappresentano? Le famose valute pregiate? Ma non è un assurdo questa euforia di crediti esteri mentre all’interno facciamo languire, per mancanza di spesa e, quindi, investimenti, due milioni di uomini? Faccio mie questa parole pensose (E. Cambi in “Rivista bancaria”, sett.-ott., p. 78 a proposito del non uso del fondo lire): “Considerata la disoccupazione che si lamenta e poiché è certa l’esistenza di materiali, o in ogni caso sicura la possibilità di approvvigionarli, l’utilizzazione dei messi finanziari, con risultati provvidi ed efficaci, si presenterebbe del tutto piana e naturale, oltre che necessaria. In sostanza esiste un importante, diremo fondamentale, strumento per dare, in varie forme, alla vita economica del Paese impulso e vigore, e non si usa o si stenta a usarlo. E’ saggio?”.
Ancora: si può sinceramente dire di avere “inventariato” tutte le banche nelle quali stagnano miliardi di risparmio inoperoso? Ha mai il Ministro del Tesoro avuto in proposito qualche colloquio con i dirigenti delle massime banche italiane che sono tutte, o quasi, dello Stato?
Ancora: e il ricorso a prestiti esteri? E lo sfruttamento razionale del patrimonio demaniale? E il metano? Quante terre incolte, quanti beni inoperosi!
Un buon amministratore mette a profitto ogni cosa per dar incremento alla sua azienda e lavoro ai suoi operai.
Quante altre cose da dire: problema dei residui passivi, problemi delle aziende Iri, problema del Fim, dell’Imi, e così via.
Conclusione. Non è serio dire: Non ci sono danari per fare investimenti e, quindi, per dare lavoro. Bisogna dire: Per trovare i danari bisogna dare una frustata energica a tutto l’apparato economico finanziario dello Stato, bisogna svegliarlo dal sonno e dalla pigrizia in cui è immerso, ricordandogli che a quel sonno e a quella pigrizia corrispondono: a) il disastramento morale di due milioni di disoccupati; b) una riduzione del reddito nazionale di almeno cinquecento miliardi all’anno. E bisogna finirla con lo spauracchio che viene sempre messo innanzi per impaurire i gonzi: quello dell’inflazione!
Si sa, non bisogna fare inflazione; ma l’inflazione è una cosa seria, non è quella cosa giornalistica che viene sbandierata ogni giorno.
E infatti: inflazione significa danaro senza cose, rappresentante senza rappresentato; ma se le cose ci sono e c’è il danaro che le rappresenta, dov’è l’inflazione? Se cresce la popolazione (e, quindi, la spesa) è chiaro che deve crescere anche “a parità di velocità di circolazione “il volume del danaro che circola. L’inflazione c’è soltanto quando alla crescita della circolazione “a parità di velocità” non corrisponde una crescita proporzionata della produzione. E’ così chiaro!
E allora: se spendo un milione di lire per costruire un milione (anzi più) di case, o per bonificare un milione di terra, o per produrre un milione di energia, dov’è l’inflazione?
Il “vuoto inflazionistico” viene definito dall’ammontare di moneta che la collettività cerca di spendere… “in eccedenza al suo reddito di piena occupazione e al di sopra del valore delle merci realmente prodotte” (Di Fenizio, op. cit., p. 473).
L’inflazione, invece, la produce proprio la disoccupazione, perché disoccupazione significa, in ultima analisi, produzione mancata contro spesa fatta (per mantenere in vita i disoccupati): cioè danaro senza cose!
E infine non bisogna dimenticare una cosa essenziale del sistema finanziario attuale: i fenomeni non si producono più ad arbitrio di questo o di quel Paese. Le monete sono ormai legate in un organico sistema di dimensioni mondiali: descrivono l’orbita di un piano definito (orbita del dollaro a Occidente, del rublo a Oriente). E quindi, inflazione e deflazione non sono più fenomeni che si operino “automaticamente”: sono fenomeni provocati, negoziati, regolati. Il mercato della moneta è, ormai, esso pure regolato.
I danari, anche se in proporzioni modeste, ci sono: ecco il punto di partenza. Si tratta di iniziarne il movimento e di manovrarlo opportunamente nel tempo. E che i danari ci siano è, infine, rilevabile inequivocabilmente da questo fatto semplicissimo: due milioni di disoccupati gravano annualmente, sul bilancio nazionale, per una somma che va dai 250 ai 300 miliardi (da L. 300 a L. 400 al giorno ciascuno): questo è un fatto che nessuna argomentazione economica, finanziaria, politica o metafisica può cancellare.
IX.
Ma tutto questo presuppone una cosa: che lo Stato si assuma questo compito nuovo di assicurare ai cittadini il lavoro (e il pane che ne deriva) e, quindi, di “regolare” adeguatamente, attraverso la spesa, la domanda di lavoro (Beveridge, §180; §372; §31). L’assunzione di tale compito fondamentale produce trasformazioni profonde nella struttura del governo in genere e in quella dei Ministeri finanziari (e della spesa) in ispecie 24.
Il governo diventa così davvero quello che già san Tommaso preconizzava: l’architetto del bene comune; il garante, per tutti, del lavoro e del pane.
Questi mutamenti strutturali del supremo organo del potere esecutivo portano mutamenti strutturali in tutto l’apparato amministrativo dello Stato: i congegni burocratici costruiti cento anni or sono e destinati a finalità di dimensioni estremamente piccole e totalmente diverse da quelle attuali non possono certamente portare il peso di compiti così nuovi e così vasti; ci vuol altro che “l’inchiostro nero” ancora richiesto per firmare le quietanze del Tesoro!
X.
E infine: nell’attesa che tutto questo avvenga bisogna provvedere alla immediata spesa dei dieci miliardi che spettano “per l’anno 1949-50 “al Ministero del Lavoro per i cantieri di rimboschimento, cantieri scuola, corsi di qualificazione e riqualificazione. E bisogna provvedere all’erogazione dei quindici miliardi già maturati a favore del piano case e all’erogazione di tanti altri miliardi già stanziati e che stagnano nelle “sacche” della burocrazia (lavori pubblici, agricoltura, trasporti, poste, marina mercantile).
Spesa fatta, occupazione creata, produzione incrementata, sofferenze lenite, energie e ricchezza moltiplicate, benedizioni di Dio ricevute! Vale proprio la pena.
XI.
1) E’ il governo persuaso che la disoccupazione, con la miseria morale che provoca, va combattuta come uno dei fondamentali nemici e delle fondamentali contraddizioni della società cristiana?
2) E’ il governo persuaso che la disoccupazione costituisca uno sperpero economico che incide gravemente sul reddito nazionale e che, a lungo andare, produce anche inflazione?
3) E’ il governo persuaso che l’eliminazione della disoccupazione presuppone un regolamento del mercato del lavoro da operarsi mediante una pianificazione della spesa (pubblica e privata) che esso solo può compiere?
4) E’ il governo persuaso che nessun ostacolo di natura finanziaria può e deve impedire il raggiungimento almeno graduale di questo obiettivo? Che i “danari” in ogni caso non possono non esistere anche se è certamente faticoso “ed esige sforzi intellettuali, volitivi e anche di preghiera!” reperirli? Che se c’è un bisogno essenziale umano non può mancare “perché Dio esiste ed è Padre” il mezzo adeguato per soddisfarlo? Che questa proposizione dettata dalla fede è perfettamente convalidata dall’esperienza e dalla più recente e vitale teoria economica?
5) E’ il governo persuaso che l’assunzione di questo compito nuovo e così fondamentale importa un mutamento in certo senso radicale della sua politica economica e finanziaria, interna e internazionale? Che esso importa l’elaborazione di un bilancio del Tesoro totalmente diverso per struttura e per finalità di quello attuale? Che esso importa un mutamento adeguato nella struttura del gabinetto e nella struttura dell’apparato burocratico statale?
6) E, infine, vuole intanto il governo procedere all’immediata erogazione delle somme necessarie per sovvenire in qualche modo alle prime e inderogabili esigenze dei disoccupati?
Ecco le domande precise che la povera gente fa al governo: se il governo può dare ad esse una risposta positiva, allora la “crisi” sarà risolta e il governo “attirando sopra di sé le benedizioni di Dio e della povera gente” farà come il sapiente costruttore del Vangelo: costruirà saldamente l’edificio sopra la roccia (Mt. VII, 24-29) 25.
Se il governo darà ad esse una risposta negativa, allora la “crisi” assumerà dimensioni più vaste e il governo farà come lo stolto costruttore del Vangelo: costruì l’edificio sulla sabbia, venne la tempesta e vi fu grande rovina (Mt. VII, 24-29).
__________
Note
1.
Che significa, infatti, che tutta la legge e i Profeti si riassumano nell’unico comandamento dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo? Che significa ama il prossimo tuo come te stesso? Vorrei essere io disoccupato, affamato, senza casa, senza vestito, senza medicinali? No, certo: e, quindi, questo no io devo anche pronunziarlo per i miei fratelli. Se io sono uomo di Stato, il no alla disoccupazione e al bisogno non può che significare questo: che la mia politica economica deve essere finalizzata dallo scopo della occupazione operaia e dell’eliminazione della miseria. E’ chiaro! Nessuna speciosa obbiezione tratta dalle cosiddette leggi economiche può farmi deviare da questo fine: devo sempre ricordarmi che il Vangelo non è un “libro di pietà” [anche!]: esso è anzitutto un “manuale di ingegneria” [parabola del costruttore, Mt. VII 24-29], cioè rivelatore delle leggi costituzionali, ontologiche dell’uomo; le sole leggi che permettono una solida costruzione della vita personale, sociale e storica dell’uomo. Tutta la liturgia quaresimale, con i continui riferimenti all’Antico Testamento, è incentrata attorno a questo pensiero salutare: digiuno, sì, ma ricordati che l’essenza più profonda del digiuno sta nell’amore fraterno. Frange esurienti panem tuum egeo vagosque induc in domum tuam: spezza il tuo pane all’affamato e dà nella tua casa abitazione ai senza tetto [Is. 58, 1-9].
2.
Questo “impegno” costituisce il nucleo vitale dell’insegnamento dei Pontefici: da Leone XIII a Pio XII: nel messaggio di Natale 1942 il “misereor super turbam” è posto come la stella orientatrice della ricostruzione cristiana. Si legga la meravigliosa pastorale 1946 del cardinal Suhard [Essor ou déclin de l’Eglise] ove l’invito a costruire un “mondo nuovo” sul tessuto dell’amore fraterno è pressante e indilazionabile. Di una “réfraction des vérités évangeliques dans le temporel” parla Maritain [Humanisme integral, p. 226 e sgg.]: e tutta orientata verso questo nuovo ordine fraterno è la meditazione di Toniolo [Indirizzi e concetti sociali all’esordio del sec. XX].
3.
Si mediti questo testo della Sacra Scrittura [Deut., XV, 4] a proposito dell’anno santo ebraico: il Signore comanda a Israele: Et omnino indigens et mendicus non erit inter vos, ut benedicat tibi Dominus Deus tuus in terra quam traditurus est tibi in possessionem, che comando preciso! E siamo al tempo di Mosè. Poi Gesù ha slargato infinitamente il comando estendendolo non solo agli israeliti [come in Mosè, ibid., XV, 3] ma a tutti gli uomini [Non c’è greco né barbaro ma soloCristo, dice Paolo]. La benedizione di Dio, perciò, sopra una collettività umana è condizionata da questo dato di fatto: che essa temi e ami il Signore e che in essa non vi siano creature ridotte “per via della disoccupazione e del bisogno” allo stato di indigenza e di mendicità. Le prime comunità cristiane erano caratterizzate proprio da questa assenza di miseria. Gli atti degli apostoli dicono con evidente gioia: la moltitudine dei credenti era un solo cuore e un’anima sola… e non vi era fra di loro nessun indigente [neque enim quisquam egens erat inter illos] [IV, 32, 34].
Attorno a questi temi della Sacra Scrittura è polarizzata una delle più vive opere di Gratry [La morale et la loi de l’histoire]. Anche se i riferimenti economici in essa contenuti non sono accettabili, tuttavia il nucleo dell’opera è saldo: esso, in sostanza, addita ai cristiani la “terza fase” della loro opera nel mondo. Nella prima fase, essi hanno costruito l’edificio sacro della teologia e hanno posto le basi di ogni costruzione futura; nella seconda fase, essi hanno “scoperto” il mondo fisico captandone le leggi e le forze per metterle al servizio dell’uomo; nella terza fase [nella quale siamo entrati], essi devono “scoprire” il mondo sociale, devono captarne le leggi e le forze per costruirlo in modo che in esso vi sia davvero posto per una reale fraternità umana.
Ebbene: la tecnica economica e finanziaria del pieno impiego nei grandi Stati moderni permette di realizzare con sufficiente ampiezza questo precetto divino; e ciò senza intaccare le essenziali libertà politiche, culturali, religiose, e anche economiche della persona umana. Si capisce: nessuna trasformazione di dimensione così vaste si opera senza scomodare la pigrizia mentale e senza toccare certe abitudini inveterate. Ma si può dire con san Paolo: fratres, hora est jam de sommo surgere, è ora di svegliarsi!
La disoccupazione è un problema in cui veri termini vanno ricercati in una visione integrale dei fatti economici: posto nei suoi veri termini esso appare non più come un mistero insolubile [Beveridge, §53, “La disoccupazione non è più un mistero senza speranza”], ma come un problema la cui soluzione è affidata alla “volontà” di una politica economica meditata ed efficiente. Ho “scomodato” tanti scrittori per mostrare al mio lettore che le cose qui scritte non sono cose generiche o tesi nuove e affrettate; sono cose “possibili”, tesi già lungamente vagliate dalla meditazione scientifica più vitale e più moderna e già sperimentate nella politica economica dei grandi Stati moderni.
[Cfr. Marrama, in Industria, 1949, n. 3, ove è documentata l’influenza radicale del pensiero keynesiano nell’economia anglosassone]. Si sa bene, l’Italia non è la Gran Bretagna o l’America: ma se le difficoltà di una politica del pieno impiego sono certamente aspre in Paesi poveri, come il nostro, questo non infirma la validità di tale politica; vuol dire che altro è il limite, altro è il graduale approssimarsi per tappe successive, al limite. Ma quel che è necessario, per questo semplice graduale approssimarsi al limite, è l’accettazione di questa “stella polare”: accettare l’itinerario, e sarebbe già molto!
Ma questa accettazione esige, almeno, una cosa: che gli uomini responsabili della politica economica abbiano il tempo di meditare su questi problemi essenziali dell’economia e della politica contemporanea: che non vivano di frasi fatte, ma di riflessioni serie.
4.
In un testo del commentario alla politica di Aristotele [Politica, I], san Tommaso dice esplicitamente che è perfecta quella communitas nella quale le cose siano così organizzate da permetter a ciascuno dei suoi membri di avere a sufficienza ciò che è essenziale per la vita [illa erit perfecta communitas quae ordinatur ad hoc quod homo habeat sufficienter quid-quid est necessarium ad vitam]: tale comunità è appunto lo Stato [talis autem communitas est civica].
5.
Se la piena occupazione non viene conquistata e mantenuta, le libertà non saranno sicure, perché per molti esse non avranno valore [Beveridge, §384].
6.
Leggere per tutti: The Economics of Full Employment, Oxford, 1948 (sei studi di Burchardt, Kalecki, Worswick, Schumacher, Balogh, Mandelbaum); Beveridge, Relazione, ecc., Einaudi, 1948 [Questa relazione è stata largamente messa a profitto in questo articolo]; Di Fenizio, Economia politica, Hoepli, 1949, cap. XIX e segg. Le citazioni che sono così insistenti in questo articolo hanno un solo obiettivo: mostrare come il buonsenso della gente semplice non è contraddetto, ma è anzi convalidato, dall’indagine scientifica più aggiornata e intelligente.
7.
Per la Gran Bretagna dice Beveridge [Relazione sull’impiego integrale del lavoro in una società libera (la relazione è del 1944) §29]: “Mentre il maggior male della disoccupazione risiede negli effetti sociali e umani sui disoccupati e sulle relazioni tra i cittadini, la perdita puramente materiale di ricchezza materiale che essa comporta è seria. Se le risorse di lavoro della Gran Bretagna non utilizzate tra le due guerre fossero state invece impiegate si sarebbe potuto, senza alcun ulteriore mutamento, aumentare la produzione totale della collettività approssimativamente di un ottavo”. E al §170 “In termini di produzione dell’immediato dopoguerra, questo avrebbe significato un aumento di circa cinquecento milioni di sterline, ai prezzi prebellici, nel valore della produzione nazionale”. Cfr. §161.
Sarebbe utilissimo fare una ricerca intorno al “costo” della disoccupazione italiana: quanto essa incide negativamente [produzione mancata: c’è proprio il danno emergente dato dalla spesa che i disoccupati devono fare per vivere; e c’è il lucro cessante, dato dal mancato aumento della produzione nazionale] sul reddito nazionale? Un calcolo approssimativo dà, per due milioni di disoccupati, una perdita nella produzione totale di non meno di seicento miliardi annui [circa il 10% del reddito totale annuo]: perdita non trascurabile davvero!
Le osservazioni di Franchini [Cinque tesi sul “Full Employment”, “Politica economica”, sett.-ott. 1949, pp. 898 e segg.] non possono non fermarsi davanti a questo fatto preciso: i disoccupati occupati producono cose: case, acquedotti, boschi, vestiti, prodotti agricoli, etc.: provocano, cioè, la “piena occupazione” alla Keynes. Cfr. Di Fenizio, Economia politica, Milano, 1949, p. 472: queste “cose” aumentano la produzione nazionale ed elevano il tenore di vita di tutti. Il lavoro imita la creazione: porta all’esistenza dei valori che, come quelli della creazione divina, arricchiscono di nuova luce il mondo dell’uomo.
Contro questo fatto così preciso ogni argomentazione si arresta: la tesi di Beveridge e dei teorici del pieno impiego è valida, ha dalla sua parte l’incontestabile saldezza dei fatti.
8.
Il fenomeno della disoccupazione era stato, in certo senso, ignorato dalla scienza economica classica: era stato, cioè considerato sempre alla stregua di quei fenomeni “normali” di cui si tesse il sistema dell’economia “libera”. Per lungo tempo non vi fu che il richiamo accorato e violento dei cristiani e dei socialisti.
Solo dalla prima decade di questo secolo sono stati iniziati studi e rilevazioni statistiche destinati a mettere il fenomeno in una luce viva: ma la “scoperta” scientifica dell’insanabile contraddizione economica “oltre che morale” insita nella disoccupazione è un fatto molto recente, risale a Keynes […una nuova era nella teoria economica dell’occupazione e della disoccupazione si è aperta con la pubblicazione, avvenuta nel 1936, dell’opera The General Theory of Employment, Interest and Money, dice Beveridge, §120]. L’intuizione della gente semplice e di buonsenso viene finalmente confortata dalla tesi scientifica: era così chiaro che si nascondeva un controsenso anche economico nel fatto tremendo della disoccupazione; il Vangelo, così semplice, parlava anche esso con tanta chiarezza!
Purtroppo la soluzione di questo problema “così fondamentale per la costruzione di una società e civiltà cristiane” è ancora ignorata da tanta parte della classe dirigente attuale, in Italia e altrove: la lotta contro la disoccupazione viene ancora fatta in modo negligente, episodico, assistenziale: i veri termini del problema [termini umani, termini economici e scientifici] sono ancora radicalmente ignorati: ciò soprattutto per mancanza di meditazione.
Tale difetto è, forse, la mancanza fondamentale della maggior parte degli uomini politici. La direzione suprema del Paese” dice Beveridge, §246 “deve essere nelle mani di uomini non oberati dalla quotidiana routine, di vaste amministrazioni, di uomini capaci di decisioni rapide, ma che abbiano il tempo di leggere, di pensare e di discutere prima di decidere. E invece ci lasciamo ancora dirigere da metodi invecchiati, generici, di “tattica” parlamentare e di partito, ignorando che il nuovo mondo economico e politico “nel quale le cose stesse, con la oro intrinseca evoluzione ci hanno introdotto “esige piloti affinati dalla meditazione.
Ci vogliono otri nuovi, perché non si mette il vino nuovo in otri vecchi.
Si tratta di socialismo? Di comunismo? Di corporativismo? Di capitalismo?
Si tratta di niente di tutto questo: si tratta soltanto di buonsenso economico oltre che umano e cristiano. Si tratta di dar lavoro a tutti e il pane quotidiano a tutti [Beveridge, che è del resto un liberale, dice giustamente che la politica del pieno impiego supera la controversia fra socialismo e capitalismo, §272; §47].
9.
E’ necessario che il pilota [cioè il governo] sia consapevole del viaggio e abbia sempre la volontà di usare i comandi per mezzo dei quali soltanto può arrivare a destinazione [Beveridge, §50 e §275].
10.
Manifesto elettorale dei conservatori in Gran Bretagna: “Noi consideriamo il mantenimento del pieno impiego come il primo scopo al quale deve mirare un governo conservatore”. Manifesto dei laburisti: “Scopo supremo che prospettiamo alla nazione è quello di una piena occupazione operaia, di sicurezza del lavoro per tutti: in questo consiste la politica del laburismo”. Manifesto dei liberali: “Noi riteniamo che la macchina dello Stato può essere adoperata per mantenere un elevato e stabile livello di impiego dei lavoratori, sulle direttive indicate nel Libro Bianco intitolato Politica d’impiego dei lavoratori, pubblicato nel 1944, Libro Bianco che prospetta quel modo di affrontare il problema della disoccupazione sul quale tanto a lungo hanno insistito i liberali e che anche i conservatori si sono impegnati a patrocinare”.
11.
Politica del New Deal di Roosevelt condivisa da Truman.
12.
Esportare anche gratuitamente [Beveridge, §301] è uno strumento che può essere essenziale per l’occupazione della manodopera in un Paese. Anche la nuova politica di importazioni dall’Europa, patrocinata da Hoffman, è ispirata da questo principio: se l’America spende dollari in Europa, mette l’Europa in grado di acquistare prodotti americani: cioè l’Europa dà lavoro all’America, come l’America dà, con le importazioni, lavoro all’Europa.
13
Evidentemente la politica del pieno impiego è un limite il cui conseguimento può essere graduale, ed è condizionato da tanti elementi interni (Cfr. Di Fenizio, op. cit., p. 472) [per es. “presenza di fattori strutturali nell’economia contrari alla piena occupazione”] e internazionali [secondo che la politica del pieno impiego ispiri o no la politica degli Stati]. Cfr. il recente rapporto delle Nazioni Unite sulle misure nazionali e internazionali sul pieno impiego [National and Internationl Measures for full Emplyment, 1949]. Le prospettive di successo, perciò, sono diverse secondo che si tratta di Paesi ricchi o di Paesi poveri. In questo senso le osservazioni di Franchini [Rivista cit., p. 900] e Marrama [Teoria e politica della piena occupazione, Roma, 1948, cap. XI] sono esatte. Cfr. Anche il “fondo” del “Sole 24 Ore”, 11.3.1950 [Un neo nella risposta di Fanfani]. Beveridge, del resto, non ignora il peso di queste gravi difficoltà: “Il perseguimento della piena occupazione non è simile al volo guidato da un aereo secondo un’onda radiodirettrice: è una difficile navigazione, il cui corso deve essere guidato, manovrato tra correnti e forze mutevoli, imprevedibili e in larga misura incontrollabili” [§50; §275]. Quel che è essenziale è questo, che la politica economica e quella finanziaria di uno Stato sia finalizzata da questo obiettivo: proporzionare la spesa totale all’occupazione. Gli uomini che vogliono lavorare e sono capaci di lavorare devono essere occupati.
14.
“L’occupazione dipende dalla spesa del danaro nei prodotti dell’industria: quando l’occupazione diminuisce, è segno che qualcuno spende meno; quando aumenta, è segno che in totale si spende di più” [Beveridge, §31; cfr. §120-126 e §180 e segg.].
15.
Cfr. “Le analisi meditate di Burchardt sul rapporto che intercorre fra risparmio, spesa compensatrice e occupazione” [in The Economics of full Employment, cit. p. 19 e sgg.].
16.
Dice il Burchardt [a p. 32]: “The recognition that the free play pf the market, that business left to itself, cannot be relied upon to produce and to maintain full utilization of the available labour represents a revolution in economic thought and has very far-reaching implication indeed”. [Il fatto di riconoscere che non si può attendere dal libero gioco della concorrenza del mondo degli affari lasciato a se stesso che esso produca e mantenga una utilizzazione integrale della manodopera disponibile, costituisce una rivoluzione nel pensiero economico e ha certamente delle conseguenze di grande portata].
17.
La responsabilità di curare che la spesa complessiva pubblica e privata insieme sia sufficiente a suscitare una domanda atta ad assorbire tutta la manodopera che cerchi impiego deve essere assunta dallo Stato perché nessun’altra autorità o persona ha i poteri richiesti.
Nessuna impresa privata può spaziare per tutto il campo dell’industria o assicurare in ogni momento una domanda a un prezzo che copra i costi per tutto quanto l’industria può produrre. Nessuna impresa privata può far sì che la finanza sia la sua serva e non la sua padrona. La spesa di ogni persona o autorità diversa dallo Stato è limitata rigidamente dalle risorse finanziarie di quella persona o autorità [Beveridge, §180; cfr. 31]. Deve essere funzione dello Stato, in avvenire, quella di assicurare una spesa totale adeguata e per conseguenza proteggere i propri cittadini contro la disoccupazione in massa, precisamente come oggi è funzione dello Stato difendere i cittadini contro gli attacchi dall’esterno e contro i furti e la violenza all’interno].
18.
Su questo articolo di Fanfani cfr. il “fondo” del “Sole 24 Ore” [11.3.1950 e precedenti] e altra risposta. Il 17.3.50. Ma la sostanza dell’articolo resta valida.
19.
Si ripresenterebbe nel futuro? E sia, ma, intanto, sarebbe sostanzialmente eliminato nel presente: il futuro è sempre così carico di incognite: perché ad esempio gli Usa non potrebbero entrare nell’ordine di idee economicamente e politicamente più sano, quello di ispirare decisamente al pieno impiego europeo e, in certo modo mondiale, la loro politica mondiale [Cfr. Schumacher (F.O.) p. 178]? “Tutte le relazioni economiche dei vari Paesi tra di loro dipendono in primo luogo dal successo che ciascuno di loro ottiene nel realizzare un elevato e stabile livello di occupazione al loro interno”. [Beveridge, §303].
20.
Beveridge, §738. “Dovremo considerare il bisogno, le malattie, l’ignoranza e lo squallore come nemici comuni di noi tutti, non come nemici con i quali ogni individuo può cercare una pace separata, trovando scampo nella prosperità personale e lasciando il prossimo nelle loro grinfie. Il significato della coscienza sociale è che ci si dovrebbe rifiutare di fare una pace separata con i mali sociali. La coscienza sociale… dovrebbe guidarci a impegnare armi differenti per una nuova guerra all’interno contro il bisogno, le malattie, l’ignoranza e lo squallore”.
21.
“La novità del nuovo tipo di bilancio annuale dello Stato sta in due circostanze: la prima, che esso dovrà riguardare il reddito e la spesa della collettività nel suo complesso e non soltanto le finanze pubbliche; la seconda, che esso dovrà assumere come dato il potenziale umano del Paese e fare il piano delle spese in base a tale dato anziché alla considerazione delle risorse finanziarie. Il Ministro che presenta il bilancio, dopo aver valutato l’ammontare delle spese che in una condizione di piena occupazione si ritiene potranno essere effettuate dai privati cittadini per il consumo e gli investimenti, deve proporre un ammontare di spese pubbliche che, insieme alle presunte spese private, sia sufficiente a realizzare la suddetta condizione, vale a dire sia capace di occupare l’intiero potenziale umano del Paese. Questo è il principio cardine [Beveridge, §34].
22.
“Questa decisione capitale comporta l’abbandono di due princìpi fondamentali che nel passato hanno retto i bilanci dello Stato: primo, che la spesa dello Stato deve essere contenuta entro un importo minimo necessario per far fronte a bisogni inevitabili; secondo, che le entrare e le spese dello Stato devono ogni anno equilibrarsi. Entrambi questi princìpi erano un sottoprodotto dell’ipotesi di piena occupazione fatta dalla teoria economica classica. Finché si ritiene che vi siano forze economiche le quali assicurino automaticamente una domanda effettiva adeguata per tutte le risorse disponibili, lo Stato non può prudentemente sobbarcarsi a impiegare per i suoi fini qualcuna di tali risorse senza privare del loro uso i privati cittadini. Ma una volta ammessa la possibilità di una domanda privata carente, lo Stato, se mira alla piena occupazione, deve all’occorrenza essere disposto a spendere più di quanto sottrae ai cittadini con la tassazione, per impiegare la manodopera e le altre risorse produttive che altrimenti la disoccupazione sciuperebbe” [Beveridge, §182].
23.
Non può dirsi davvero che sia stato costruito secondo questi criteri il bilancio di previsione del Tesoro 1950-51 presentato al Parlamento: siamo sempre alla struttura contabile, di ragioneria: tanto entra, tanto esce, tanto deficit! Ma la struttura di un bilancio statale non può più essere questa: deve essere quella di un “piano”: come ha un piano l’unità di consumo [la famiglia], come ha un piano l’unità di produzione [l’impresa], così deve avere un piano economico e finanziario integrativo e orientatore degli altri piani anche la massima collettività politica [lo Stato]. Quello che si dice [in dimensione di “microeconomica”] delle singole unità economiche [Di Fenizio, op. cit., p. 65], “Ogni unità economica redige pertanto il piano suo, guardando entro di sé e volgendo nello stesso tempo gli occhi al mondo che la circonda”], si deve ripetere [in dimensione “macroeconomica”] per lo Stato [o per la comunità degli Stati: ad esempio, il piano Erp]. Ora ogni piano ha un obiettivo centrale e ha obiettivi secondari coordinati al primo.
L’obbiettivo centrale del piano economico e finanziario dello Stato? La piena occupazione delle risorse produttive [e, quindi, al limite del pieno impiego della manodopera] al fine di garantire ai cittadini il lavoro e un dignitoso tenore di vita. Tutte le risorse del Paese devono essere mobilitate in vista di questo fine.
Supponete una madre di famiglia che faccia il suo piano economico: come si regola? Proporziona il reddito al pane dei suoi figli. Come? Con tutti i mezzi possibili: entrate ordinarie e straordinarie, prestiti e così via: ma il pane per i figli deve essere trovato. Estendete questo principio allo Stato: il Ministro del Tesoro ha proprio questo compito: operare questo proporzionamento del reddito nazionale alla piena occupazione. Quindi: attivazione rapida di tutte le risorse, di tutto l’immenso patrimonio statale [e il metano?] e manovra sapiente della moneta, all’interno e nell’orbita internazionale, al fine di realizzare questi grandi obiettivi umani politici ed economici.
24.
Un gabinetto proporzionato a una politica di “pieno impiego” suppone, dice Beveridge, §238, per le funzioni nuove che esso assume, tre Ministeri fra loro organicamente collegati: a) il Ministero della finanza nazionale, per stabilire la spesa; b) il Ministero dello sviluppo nazionale, il quale abbracci l’intiero campo dei piani regolatori per la città e la campagna, delle abitazioni e dei trasporti; c) il Ministero del Lavoro, che “per l’esecuzione dei suoi compiti deve seguire con continuità l’occupazione e la disoccupazione: la sua esperienza deve formare la base della pianificazione del potenziale umano. Esso è anche lo strumento adatto ad assicurare, con la sua azione e con la cooperazione delle imprese e degli operai, quella mobilità organizzata del lavoro, che è la terza condizione della piena occupazione”.
25.
Che un “movimento” verso la spesa, verso un acceleramento del circolo monetario e, quindi, verso l’occupazione, si sia iniziato, non si può dire davvero. Anzi, confrontando i tre ultimi specchietti della situazione della Banca d’Italia [31 dic. 1949; 31 gen. 1950; 28 feb. 1950] si nota, quasi a farlo apposta, un’ulteriore contrazione del già tanto contratto movimento monetario [seguire gli articoli di Bevione sul “Sole 24 Ore”]. Indico solo tre voci: 1) la circolazione; 2) la massa delle valute estere (debitori diversi); 3) il fondo lire.
Si confronti:
Non è necessario essere grandi finanzieri o grandi economisti per capire che sottrarre altra acqua [moneta] a un terreno già arso per mancanza di acqua [ribasso dei prezzi all’ingrosso in agricoltura e non solo in agricoltura, (Statistiche del Lavoro, marzo-aprile 1950); inquietudine delle Borse; fallimenti; licenziamenti; volume di due milioni di disoccupati; tasso di interesse e così via] significa almeno questo: fare aumentare la disoccupazione. Settantatré miliardi di circolazione in meno [effetto della conversione dei buoni del tesoro?] significa, come dice Bevione, fare salassi all’anemico [“Il Sole 24 Ore” del 15.3.1950]; e quella crescita di trenta miliardi del già immenso ammasso di 640 miliardi di valuta? Non è tutta occupazione impedita? E la crescita, anziché diminuzione, del fondo lire? Non sono altri trenta miliardi [oltre ai 160 già stagnanti] sottratti al circolo e, quindi, al lavoro? Di questo devono persuadersi i compilatori della “situazione”: che ogni lira sottratta al circolo significa “nell’attuale situazione depressa dell’economia italiana e del lavoro italiano “produzione diminuita e disoccupazione cresciuta: cioè lacrime amare della povera gente. Su questi gravi difetti del circolo monetario si confrontino le note misurate di Cambi nell’ultimo numero della “Rivista bancaria” [gennaio-febbraio 1950 e già nei precedenti del 1949].
A proposito delle conseguenze che produce una contrazione della spesa totale, va meditata questa pagina così perspicua di J.E. Meade dell’Università di Londra [dal volume Planning and Price Mechanism, 1948, un capitolo del quale è riportato in “Moneta e Credito”, 1949, n. 5]. Pare proprio una descrizione fedele della situazione italiana fine 1949-inizio 1950. “Negli anni successivi al 1930 abbiamo avuto modo di valutare le dannose conseguenze di una deficienza della domanda monetaria totale di beni e servizi. Quando, per una ragione o per l’altra, il volume totale del potere di acquisto monetario si contrae e diminuisce quindi la spesa monetaria per beni e servizi d’ogni genere, tutti i settori della produzione perdono, più o meno simultaneamente, di rimuneratività. Si iniziano licenziamenti di lavoratori e riduzioni nella produzione. Il male si allarga a circolo vizioso. Una diminuzione di domande di camicie provoca una contrazione dei redditi dei camiciai, i quali potranno spendere meno in calzature: i calzolai si troveranno con meno lavoro e ridurranno la spesa per mobilio, e così via. Risultato finale: una massiccia disoccupazione di risorse. Il reddito reale della collettività si riduce; il tenore di vita si abbassa, e non per necessità superiori, particolarmente nelle zone dove si addensa la disoccupazione; energie produttive, invece, si sperperano nell’ozio. Ancora più importante forse d’ogni conseguenza materiale è il disagio spirituale che nasce da quel senso di impotenza che sempre s’accompagna a un’inattività forzata in un mondo di povertà. Misure debbono quindi essere prese “ne siamo tutti convinti “per stimolare la domanda monetaria totale e impedirle di cadere al di sotto del livello necessario per sostenere un alto grado di produzione e di impiego, quando venga il momento “e presto o tardi sicuramente verrà “in cui una deficiente domanda totale minacci di precipitare in una profonda depressione”.
Gli uomini che hanno in mano le leve di comando della moneta sono inviati a riflettere!
[FINE]
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