I mass media giocano un ruolo rilevante nel percezione occidentale della rivolta siriana. Ma i racconti che ci vengono proposti sono neutrali? E soprattutto bastano per comprendere realmente cosa accade in Siria?
Russ Baker – * Pubblicato su WhoWhatWhy:
* – 13 Aprile 2012 – Si moltiplicano i reports dei grandi media dalla Siria. Ciò che è sbagliato di questi resoconti è che generalmente mancano di un’analisi dei rapporti di potere.
Un recente articolo del New York Timesad esempio,intitolato “Neighbors Said to Be at Violent Odds in Syrian Crackdown”, si basa quasi esclusivamente sui racconti dei rifugiati in Libano.
Questo il passaggio principale:
I musulmani sunniti che sono fuggiti in Siria descrivono una repressione del Governo più pervasiva e più settaria di quanto si pensasse, con i civili alleati alla minoranza religiosa del presidente Bashar al-Assad che sparano ai propri vicini mentre i militari lanciano quella che molti Sunniti vedono come una campagna per costringerli a lasciare le proprie case e villaggi specialmente in alcune zone del Paese.
In altre parole pulizia etnica, forse un preambolo di quegli orrori su larga scala che abbiamo osservato in Rwanda e Yugoslavia. L’inevitabile conclusione è che ogni persona rispettabile dovrebbe supportare qualsiasi sforzo per fermare tutto ciò. Basandoci sulla storia recente di Libia, Iraq e di altri posti questo finirebbe per evolvere velocemente in un intervento militare. Infatti, domenica (1 Aprile, ndr) , gli eventi si sono intensificati. Nel meeting di Istanbul, gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno iniziato a muoversi nella direzione di un intervento diretto. Le nazioni arabe hanno accettato di stanziare 100 milioni di dollari per i ribelli, mentre l’amministrazione Obama di inviare loro attrezzature per la comunicazione…
…Anche il resoconto del Times non offre nessuna analisi del background del conflitto.
Al contrario, ci vengono proposti maldestri e rudimentali tentativi di scaricare le responsabilità, tanto che il reportage risulta essere ben lontano dalla realtà.
è difficile valutare tutte le affermazioni dei rifugiati poiché nel conflitto siriano, il più lungo e sanguinoso delle rivolte arabe, ciascun lato incolpa l’altro per fomentare le divisioni settarie.
Questa è una affermazione fortemente equivoca poiché elide la questione centrale: chi sta promuovendo le rivolte? E perchè? La fonte più autoritaria citata tende ad essere un militare o un ufficiale disertore delle truppe governative. I loro commenti non dovrebbero essere presi semplicemente come testimonianze indipendenti, del momento che loro sono, di fatto, parte di un gruppo ribelle organizzato che tenta di giustificare il futuro intervento delle potenze occidentali.
Siccome il conflitto in Siria ha coinciso con l’ondata di rivolte di altri paesi arabi – la cosiddetta Primavera Araba- è inevitabile che la natura dell’insurrezione sia identica a quella delle rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Libia etc. Sebbene i media abbiano fallito nel notare le reali differenze, esse sono enormi. Tunisia ed Egitto sono state rivolte autentiche e domestiche, che riflettevano un ampio dissenso e sono arrivate senza l’intervento di potenze militari straniere. In Libia vi è stato un cinico tentativo da parte delle potenze straniere di cavalcare le animosità tribali, a lungo covate, e promuovere una presunta sommossa interna che è stata in realtà pianificata, gestita di nascosto dai servizi militari e di intelligence esteri.
L’importanza del contesto geopolitico
È ovvio che una corretta copertura mediatica dovrebbe focalizzarsi sulla storia della Siria, la principale causa del rivolta, la legittimità o meno delle autorità, i programmi delle varie fazioni dei ribelli.
Dobbiamo capire perché, se il Paese è stato governato da una minoranza, solo adesso stiamo assistendo ad importanti rivolta anti-governative. In breve, c’è bisogno del contesto geopolitico.
E sarebbe importante domandarsi perché alcuni sostenitori delle rivoluzioni sono rappresentati come vittime, come in questo caso, mentre in altri casi -per esempio in Francia o Arabia Saudita- sono descritti come terroristi?
Per di più, mentre le aspirazioni per una maggiore libertà sono giuste e corrette, non tutte le persone che cercano di rovesciare odiosi regimi sono necessariamente sinceri combattenti per la libertà. Ed il risultato dopo la caduta spesso non è quello promesso.
Allo stesso modo è importante guardare al nostro sistema con oggettività. Negli Stati Uniti, per esempio, omaggiamo la democrazia ogni quattro anni, ma non è forse il nostro sistema politico, come quello dei paesi del Medio Oriente, sempre più dominato da un numero abbastanza ristretto di persone molto ricche? La media della popolazione americana ha una bassa percezione di quello che sta realmente accadendo, o sul perché -sia nel proprio Paese o in suo nome in terre lontane- e tendono ad adeguarsi alla propaganda, per la maggior parte finanziata da questo stesso piccolo cerchio di interessi.
Ma se abbastanza Americani avessero realmente una fotografia di ciò che accade, concluderebbero che il sistema è truccato, e inizierebbero a scendere in strada. Le autorità, a quel punto, reprimerebbero le manifestazioni con la forza, proprio come è avvenuto in Siria, Arabia Saudita etc. In realtà ciò è già avvenuto in tutto il paese, in miriadi di strade. Potremmo iniziare, per esempio, con le risposte violente ai vari accampamenti del movimento”Occupy”.
Allo stesso modo potremmo domandarci perché i paesi occidentali sono improvvisamente così interessati ai diritti umani in questi paesi, mentre ignorano quasi completamente la stessa questione in altri posti come Arabia Saudita, Bahrain ed Emirati Arabi. Alcune possibili spiegazioni vengono immediatamente alla mente.
Mentre gli Stati Uniti ritirano le proprie truppe dall’Iraq e le compagnie straniere incrementano la loro produzione di petrolio è di fondamentale importanza avere una presenza militare nelle vicinanza per proteggere quegli investimenti. E quale è il Paese giusto accanto?
Il fatto stesso che la Siria non abbia grandi riserve di petrolio è esattamente ciò che permette all’argomento umanitario di prevalere incontestato. È ciò che permette alle nuove organizzazioni di operare come se non fossero in gioco affari commerciali o strategici. Da non dimenticare, la Siria è stata per molto tempo alleata dell’Iran e perciò un cambio di regime è parte di un più grande piano per indebolire l’influenza regionale del regime di Teheran. E poiché la Siria confina strategicamente con Israele, Libano e Turchia sarebbe un fantastico hub per le basi (militari, ndr).
Molto prima del meeting di domenica ad Istanbul, abbiamo avuto costanti sentori che i principali paesi della NATO, insieme ai loro alleati chiave come l’Arabia Saudita (strettamente legata all’opposizione sunnita siriana) fossero profondamente coinvolti nell’innescare la miccia di questa rivolta. Continuare a far finta, come i media hanno fatto per molti mesi, che questo è semplicemente una tragedia che coinvolge una sola parte, che può essere alleviata con un’eventuale azione militare (che, come la storia recente ci mostra, porterà solo ad una ancora più grave sofferenza umana) non è una prova di negligenza giornalistica?
Il lavoro dei media non è quello di mandare corrispondenti per ottenere strazianti resoconti di prima mano o testimonianze dirette di violenza. Certamente reports di guerra di vecchio stampo hanno uno scopo utile e generano una narrazione emotivamente potente. Ma senza un inquadramento generale -precisamente cosa sta accadendo e perchè- i reports di guerra possono trasformarsi in strumento di propaganda per una maggiore, e non minore, violenza.
Così, i media fanno perfettamente il gioco di coloro che cercano in accuse inventate l’opportunità per l’Occidente ed i suoi alleati arabi per rimuovere un altro regime “scomodo”.
* Pubblicato su WhoWhatWhy: http://whowhatwhy.com/2012/04/02/how-war-reporting-in-syria-makes-a-larger-conflict-inevitable/#disqus_thread