Il 19 ottobre, una comunità di donne transgender provenienti da una località a sud di Roma è stata invitata dal Papa. Queste persone, legate da un rapporto di amicizia, hanno ricevuto un’accoglienza che non presenta aspetti negativi, anzi, è intrinsecamente positiva.
Questo gesto mi suscita tenerezza e partecipo con un sentimento positivo. Queste persone sono state spesso discriminate da chi si ritiene più degno sulla base della propria mascolinità. È giusto opporsi a certe sottoculture discriminatorie e accogliere queste persone come prime, seguendo l’esempio di Gesù.
Tuttavia, sorge una domanda rilevante: perché questo attivismo da parte del Vaticano si manifesta solo ora, in un momento in cui l’iniziativa di promuovere i diritti e l’emancipazione delle persone transgender è già stata intrapresa da altri attori a livello mondiale? Questi, a differenza del Vaticano, sembrano muoversi più per motivazioni ideologiche che per un autentico spirito di amore fraterno.
Non si può ignorare il fatto che numerose organizzazioni internazionali non solo riconoscono l’esistenza di persone che non si identificano nei tradizionali ruoli di genere maschile o femminile, ma affermano anche che la determinazione dell’identità di genere sia una libera scelta psicologica, esprimibile fin dalla tenera età, anche pre-puberale. E per giunta legiferano a riguardo con attacco alla famiglia tradizionale e introducendo dubbi prgrammi educativi nelle scuole, nella pubblicità, nelle trasmissioni televisive, nel cinema. Questa prospettiva solleva interrogativi significativi sul ruolo delle istituzioni religiose e sulla loro risposta ai cambiamenti sociali e culturali.
Non si può evitare di riconoscere le evidenze, anche se, in queste mie riflessioni, queste persone non hanno certamente responsabilità e a loro va tutta la mia considerazione e simpatia.