Il 31 maggio del 1973 venne promulgata la nuova costituzione siriana, che suscitò immediate proteste, soprattutto nella città conservatrice di Hama, perché il documento, composto di 156 articoli, ometteva di specificare che il presidente della repubblica doveva essere musulmano. Era un fatto che colpiva profondamente l’opinione pubblica in quanto, fin dagli anni ʼ30, la costituzione siriana stabiliva che il capo dello stato doveva appartenere alla fede islamica. A causa delle pressioni da parte della maggioranza sunnita del paese, Assad dovette fare un passo indietro e ripristinare la clausola inerente l’appartenenza all’Islam del presidente. In compenso fu mantenuto l’articolo secondo il quale la sharīʿa (legge islamica) non era la fonte principale della legislazione, ma una delle fonti principali. Hāfiz al-Asad dovette dimostrare di essere un buon musulmano.
La Mecca, è una città dell’attuale Arabia Saudita occidentale, situata nella regione dell’Hegiaz. Capoluogo della provincia omonima, è la città santa per i musulmani.
Partecipò alle preghiere pubbliche e si recò in pellegrinaggio alla Mecca. In più occasioni, numerosi ulama rilasciarono dichiarazione favorevoli ad Assad, ribadendo che gli alawiti erano musulmani e non eretici; diedero una connotazione religiosa alla guerra del 1973, sostenendo che era un conflitto religioso contro i nemici dell’Islam e Assad ne era il leader e condannarono i Fratelli Musulmani come una “banda”.
Uno degli obiettivi che si pose il nuovo presidente in politica estera era quello di recuperare i territori perduti nella Guerra dei Sei Giorni e riscattare l’immagine del proprio paese dopo vent’anni di continue umiliazioni da parte degli israeliani. Per fare questo aveva bisogno di accrescere enormemente il potenziale bellico siriano fino ad allora sempre nettamente inferiore a quello nemico. E non è un caso, quindi, che dal febbraio 1971, dopo appena dieci settimane dal cambio di potere, Assad si recò in visita a Mosca e lo farà ancora una dozzina di volte fino al 1973.
Nella foto il capo supremo dell’URSS, Leonid Breznev (al centro) e Andrei Gromyko, il suo ministro degli esteri (alla sua sinistra). Il presidente siriano Hafez el-Assad all’aeroporto di Mosca (a destra di Breznev).
Dopo numerose trattative i dirigenti sovietici accordarono a Damasco ingenti forniture militari (300 caccia da combattimento, più un centinaio di batterie Sam con 500 lanciamissili e almeno 400 unità di artiglieria contraerea) a patto, però, che ogni manovra e decisione siriana venisse presa in diretta consultazione con Mosca. Mentre cercava le armi per combattere, Assad trovava nell’Egitto di Sadat, l’alleato naturale e privilegiato per sconfiggere Israele. Agli inizi del 1971 il presidente siriano e il suo omologo egiziano iniziarono così a elaborare una serie di piani per un attacco congiunto sino ad arrivare all’agosto del 1973, quando nel quartier generale della marina egiziana di Raʾs at-Tin, si tenne una riunione segreta del Consiglio supremo delle forze armate siro-egiziane.
In quell’occasione le più alte cariche dei due eserciti firmarono il documento formale in cui si impegnavano a muovere guerra nel prossimo autunno. Ulteriori consultazioni fissavano la data e l’ora: il 6 ottobre alle 14.00.
In realtà Siria ed Egitto avevano obiettivi assai divergenti: Assad voleva la guerra perché era convinto che ogni colloquio con Israele non avrebbe portato a nessuna restituzione dei territori occupati; Sadat invece voleva il conflitto per aver maggior potere negoziale al tavolo della trattativa separata che già conduceva (apertamente, ma anche segretamente) con Tel Aviv tramite la mediazione americana. Per Damasco si trattava di una guerra di liberazione, per il Cairo era una mossa essenzialmente politica per rilanciare la propria diplomazia. Entrambi avevano bisogno l’uno dell’altro, e Sadat sapeva bene che Assad si sarebbe rifiutato di combattere se lo scopo comune non fosse stato la liberazione del Sinai e del Golan.
Il presidente egiziano scelse così di non rivelare le sue vere intenzioni al collega siriano, mentre quest’ultimo, troppo preso dai suoi obiettivi di guerra, non si poneva nemmeno il problema di quel che sarebbe potuto accadere dopo la fase bellica, né si garantì una rete diplomatica di sicurezza in caso di insuccesso.
In questo contesto, il 6 ottobre 1973 ebbe inizio la Guerra d’Ottobre (anche detta del Ramadan o dello Yom Kippur perché iniziata in concomitanza con le omonime festività musulmana ed ebraica): il massiccio attacco congiunto siro-egiziano colse di sorpresa i militari e i dirigenti israeliani, e mentre da nord i siriani riuscirono ad avanzare fino a conquistare importanti posizioni (compresa la vetta del Monte Hermon/ash-Shaykh), da sud, gli egiziani, si arrestarono subito dopo attraversato il Canale di Suez.
Sadat infatti decise di non avanzare nel Sinai, come invece si aspettava la Siria, la quale si troverà a combattere da sola per un’intera settimana, soccombendo alla fine ad Israele. Quest’ultimo infatti non dovendo più preoccuparsi di difendere i suoi confini meridionali poté concentrarsi interamente su quelli settentrionali costringendo le truppe di Damasco alla ritirata fino alle linee del 1967 e, in seguito anche al di là di esse.
I comandanti delle Forze di difesa Israeliane (FDI): Ariel Sharon, Haim Bar-Lev e Moshe Dayan si riuniscono per un piano di contrattacco.
Nonostante l’arrivo di alcuni reparti iracheni, seguiti il giorno dopo da quelli sauditi e giordani, le forze siriane erano ormai allo sbando e i militari israeliani arrivarono a solo 35 km da Damasco, oltre venti chilometri più avanti delle linee della tregua del ’67. Dopo numerosi appelli inascoltati alla tregua (il 22 ottobre la risoluzione 338 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiedeva l’applicazione in tutte le sue parti della 242 del 1967) e l’intervento diretto di Mosca e Washington (gli Usa dichiararono l’allarme generale atomico di terzo grado), il 25 ottobre venne firmato un primo cessate il fuoco. Dopo una lunga guerra d’usura che si protrasse sul Golan alla metà del 1974 (il 21 aprile gli israeliani riuscirono a conquistare nuovamente il monte Hermon/ash-Shaykh), Damasco e Tel Aviv firmarono il 31 maggio 1974 un delicato accordo in base al quale la Siria recuperò un quarto del territorio conquistato da Israele più alcune zone, di scarsa estensione geografica ma simbolicamente importanti come la città di Quneitra.
soldati dell’IDF conquistano posizioni strategiche negli ultimi atti del conflitto.
Da quel momento fino ad oggi, non vi furono più scontri diretti tra israeliani e siriani sui loro rispettivi territori sebbene il conflitto diplomatico e militare continuò, ma su altri campi di battaglia (come il Libano).Da allora la posizione siriana rimarrà invariata negli anni: la pace con Tel Aviv si avrà solo quando Israele si ritirerà entro i confini pre-1967 restituendo i territori occupati. Questo dovrà essere inserito in un accordo globale che comprenda il pieno riconoscimento dei diritti dei palestinesi, tra cui quello a vivere in uno stato indipendente. La Guerra d’Ottobre causò alla Siria danni valutati a 1800 milioni di dollari. Gli sforzi per la ricostruzione furono immensi. Ma il governo agì celermente introducendo misure di liberalizzazione economica per incoraggiare gli investimenti. Il terzo piano di sviluppo (1971-1975) portò a una crescita inaspettata. Spronò quindi il governo a rafforzare gli incentivi e a dare il via a un ambizioso quarto piano di sviluppo (1976-1980), che si scontrò con le ripercussioni economiche dei problemi regionali. Assad fu in grado di dare stabilità interna, successo nazionale e crescita economica che gli conferirono popolarità e legittimità. Solo nella seconda metà degli anni settanta lo stato siriano dovette far fronte tensioni e a minacce interne, causate dal coinvolgimento militare nella guerra civile libanese nel 1976, dalla diffusione di corruzione e nepotismo, da abusi delle forze di sicurezza, dalla composizione su base confessionale del sistema e dall’aumento delle diseguaglianze economiche. Negli anni tra il 1976 e il 1982 la Siria si ritrovò in una situazione di pre-guerra civile quando le forze islamiste, in particolare i Fratelli Musulmani, diedero vita a una campagna di attentati terroristici su vasta scala volti a destabilizzare il paese.
I Fratelli Musulmani (al-Ikhwān al-Muslimūn) furono fondati nel 1928 da un insegnante di scuola elementare Ḥasan al-Bannā a Isma’iliyya, sulla riva occidentale del Canale di Suez, in Egitto. Secondo al-Bannā l’Islam era un sistema totalizzante che tendeva a dare ogni risposta alla società contemporanea. La soluzione per risolvere i problemi che affliggevano le società musulmane era, secondo i Fratelli Musulmani, quella di creare un governo che applicasse i principi dell’Islam, realizzare la giustizia sociale per tutti gli egiziani e liberare tutta la valle del Nilo ed inseguito tutto il dār al-Islām (Casa dell’Islam) da qualsiasi potenza straniera. Queste idee si diffusero in Siria soprattutto a Damasco e ad Aleppo e presero corpo dopo il 1945. Per partecipare alle elezioni legislative i Fratelli Musulmani formarono nel 1949 il Fronte socialista islamico, che fu dissolto dal governo nel 1952 quando furono chiusi anche gli uffici e le scuole.
Il primo scontro fra Baʿth e la Fratellanza Musulmana avvenne nel 1963, subito dopo che il Baʿth era giunto al potere in Siria. Nel 1964-65 si ebbero delle manifestazioni in diverse città della Siria, soprattutto ad Hama che furono represse. Dal 1976, molti ufficiali e funzionari, così come liberi professionisti, medici e insegnanti siriani furono assassinati. La maggior parte di loro erano alawiti fatti oggetto degli attentati delle organizzazioni armate della Fratellanza Musulmana, come il Kata’ib Muhammad (Falangi di Muhammad) creato ad Hama nel 1965 da Marwan Hadid.
Il 16 giugno 1979, la Fratellanza Musulmana effettuò un attacco contro la Scuola di Artiglieria di Aleppo, uccidendo 83 cadetti. Un membro del corpo insegnante il capitano Ibrahim Yusuf, fece adunare i cadetti nella mensa e poi fece entrare degli uomini armati che aprirono il fuoco. Questo attentato fu opera di Tali’a muqatila (Avanguardia Combattente), un gruppo di terroristi collegato alla Fratellanza Musulmana e guidato dal giovane ingegnere di Quneitra Adnan Oqla.
Gli attentati facevano parte della vita quotidiana in Siria fin dall’intervento in Libano, nell’estate del 1976, ma non avevano mai raggiunto le dimensioni del massacro di Aleppo. Tale carneficina segnò l’avvio di una campagna terroristica di vasta scala contro gli alawiti, i quadri e le sedi del partito Baʿth, le caserme dei militari e della polizia e le fabbriche. Nella sola città di Aleppo tra il 1979 e il 1981, i terroristi uccisero oltre 300 persone soprattutto bathisti e alawiti, ma anche una dozzina di chierici islamici che avevano denunciato gli omicidi. Di questi il più importante fu lo Shaykh Muhammad al-Shami, ucciso nella sua moschea di Suleimaniya il 2 febbraio del 1980. Non vennero risparmiati nemmeno gli esperti russi di stanza in Siria: nel corso di una serie di incidenti avvenuti tutti nel gennaio del 1980 tra di loro si contarono una decina di morti e feriti. Altre vittime di rilievo del terrorismo islamista negli anni precedenti la strage nella Scuola di Aleppo furono: il comandante della guarnigione di Hama, colonnello Ali Haidar, ucciso nell’ottobre del 1976; il rettore dell’Università di Damasco, Muhammad al Fadl, assassinato nel febbraio del 1977; il comandante del corpo missilistico, brigadiere Abd al Hamed al Ruzzuq, giugno del 1977; il professore Ali Ibn Abid al Ali, dell’Università di Aleppo, novembre del 1977; il decano dei dentisti siriani, dottor Ibrahim Naama, marzo del 1978; il direttore degli affari di polizia presso il Ministero dell’Interno, colonnello Ahmad Khalil, agosto 1978; il pubblico ministero Adel Mini della Suprema Corte per la Sicurezza dello Stato, aprile 1979 ed infine il medico personale di Asad, il neurologo Mohammad Shahada Khalib, che verrà ucciso nell’agosto del 1979. I migliori soldati e gli ingegni più brillanti della nuova società che Assad stava cercando di costruire, caddero così uno dopo l’altro.
Ai primi di marzo del 1980, si ebbero diversi scontri armati fra insorti islamisti e forze di sicurezza. Nei pressi di Aleppo, centinaia di insorti furono uccisi e 8.000 arrestati, debellando l’insurrezione. Il 26 giugno 1980 Assad stesso sfuggì alla morte per un soffio. I terroristi islamici lanciarono due bombe a mano e aprirono il fuoco a colpi di mitra sulla soglia del Palazzo degli Ospiti, dove il leader siriano attendeva l’arrivo di un ospite d’onore. Con un calcio Assad scagliò lontano una delle granate, mentre uno degli uomini della sua scorta si gettò sull’altra, rimanendo ucciso sul colpo; la sua guardia del corpo personale, Khaled al Hussein, gettò a terra il presidente e gli fece scudo con il proprio corpo. La risposta immediata del regime fu l’esecuzione a sangue freddo di circa 550 Fratelli Musulmani detenuti nel carcere di Palmira.
L’8 luglio l’appartenenza alla Fratellanza Musulmana diventò un reato capitale e venne concesso un mese di tempo per abiurare a coloro che volessero abbandonare l’organizzazione. In seguito a questa legge, oltre un migliaio di appartenenti ai Fratelli Musulmani si consegnarono. Tuttavia gli attacchi e le rappresaglie continuarono senza sosta.
Tra agosto e novembre 1981 i terroristi effettuarono tre attacchi con auto-bombe contro obiettivi governativi e militari a Damasco, uccidendo centinaia di persone. Il 2 febbraio 1982, la Fratellanza scatenò una grande insurrezione ad Hama, prendendo il controllo della città. L’esercito rispose con estremo vigore, eliminando migliaia di guerriglieri e sconfiggendo, emarginandolo, il movimento islamista.
La città siriana di Hama dopo il 1982. Assedio e massacro di Assad.
L’attacco ad Hama iniziò la mattina del 2 febbraio 1982, quando un’unità dell’esercito siriano venne aggredita dai terroristi comandati da Umar Jawwad (Abu Bakr). Altre cellule terroristiche vennero allertate via radio e i loro cecchini, appostati sui tetti, iniziarono a sparare sui soldati siriani. Abu Bakr diede così l’ordine dell’insurrezione generale ad Hama. Gli altoparlanti delle moschee vennero utilizzati per invocare il jihad contro il Baʿth, e centinaia di insorti islamisti attaccarono le case dei funzionari governativi e del partito Baʿth, e le caserme di polizia. Il 3 febbraio circa 70 bathisti vennero uccisi e gli insorti islamisti e altri attivisti dell’opposizione proclamarono Hama una “città liberata”, invocando l’insurrezione generale contro gli “infedeli” in tutta la Siria. Secondo il giornalista Patrick Seale autore de Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad: «Ogni lavoratore, ogni aderente al partito, ogni paracadutista inviato ad Hama sapeva che questa militanza islamista doveva essere eliminata dalla città, costi quel che costi […]». L’esercito venne quindi mobilitato, il presidente Hāfiz al-Asad inviò ad Hama anche le Compagnie per la difesa della rivoluzione guidate dal fratello Rifʿat al-Asad e reparti armati del Mukhābarāt, il servizio di sicurezza siriano; si trattavano in tutto di 12.000 effettivi. Prima dell’attacco, il governo siriano chiese la resa dei ribelli, avvertendo che chiunque fosse rimasto in città sarebbe stato considerato un ribelle. L’assedio e i combattimenti durarono circa tre settimane; la prima settimana venne dedicata al ripristino del controllo della città, e le altre due a liquidare il terrorismo. Dopo l’assalto iniziale, il personale militare e di sicurezza rastrellò le zone occupate dai terroristi, che erano state bombardate per quattro giorni, e distrusse le gallerie utilizzate dagli islamisti. Non si saprà mai con esattezza il tragico bilancio delle vittime: i simpatizzanti del regime parlano di “solo” 3.000 morti; l’opposizione arriva a 20.000 e più. Redigere un accurato bilancio è complicato anche per il fatto che molti, soprattutto donne e bambini, riusciti a mettersi in salvo passando il cordone militare che circondava la città, vennero in un primo momento conteggiati fra i dispersi. La cifra che pare più verosimile oscilla fra le 5.000 e le 10.000 vittime. Da allora fino al 2011 nel paese non comparirà più alcuna forma di opposizione islamica e il gruppo siriano dei Fratelli Musulmani dovrà riorganizzarsi in esilio. Secondo la storica Mirella Galletti: «L’operato di Asad fu sostanzialmente condiviso dalla popolazione, anche tra molti sunniti, che lapidariamente sentenziarono: “Meglio un mese di Hama che quattordici anni di guerra civile come in Libano”» (Galletti 2014, p. 108).
Secondo l’opinione del presidente Hāfiz al-Asad, confermata dal giornalista Robert Dreyfuss autore del best seller Devil’s Game: How the United States Helped Unleash Fundamentalist Islam, la Fratellanza Musulmana in Siria è stata aiutata dal governo giordano e quello iracheno in collaborazione con i Falangisti Libanesi, l’Esercito del Sud del Libano, il governo israeliano di destra di Menachem Begin e quello americano, il quale avrebbe presumibilmente sostenuto, finanziato e armato i Fratelli Musulmani, nel tentativo di rovesciare il regime siriano.
Una delle prove più schiaccianti del coinvolgimento statunitense fu la scoperta di equipaggiamenti “made in Usa”, nelle mani dei terroristi, soprattutto un sistema di comunicazioni particolarmente sofisticato che poteva essere venduto a paesi terzi solo dietro esplicita autorizzazione degli Stati Uniti.
Alla fine del 1983, Assad ebbe gravi problemi cardiaci e il paese trattenne il sospiro fino alla sua dimissione dall’ospedale. La sua figura era centrale per la stabilità del paese, non era stata ancora preparata la successione e si potevano quindi temere l’emergere della conflittualità e l’intervento dell’esercito. Il fratello Rifʿat possibile successore, fece un uso disinvolto delle Compagnie per la difesa della rivoluzione che utilizzò ad Hama.
Corrotto amante del lusso, venne criticato per aver favorito gli Usa quando inviò, per compiere gli studi, i figli a Washington, dove fece costruire un grande palazzo che fu presto dato alle fiamme, si dice dagli israeliani.
Durante la degenza di Hāfiz, Rifʿat inondò la Siria di poster dove appariva sorridente e la polizia regolarmente li strappava. Rifʿat chiese mutamenti nel comando dell’esercito che gli vennero rifiutati. Portò allora le sue truppe vicino al palazzo presidenziale. Hāfiz ordinò al cognato di condurre le sue forze regolari dall’altro capo della strada e per alcuni giorni i due schieramenti rimasero contrapposti. Hāfiz fece arrestare uno dei comandanti in capo delle Compagnie per la difesa della rivoluzione e l’opposizione ben presto terminò. Per porre fine a questa situazione precaria il Baʿth nominò Rifʿat uno dei tre vicepresidenti. La promozione fu di fatto una rimozione. Il generale Mustafà Tlās rimase al ministero della difesa, dove risiedeva il potere effettivo.
Nel maggio 1984, Rifʿat fu inviato a Mosca con una delegazione e non poté rientrare in Siria, essendo stato dichiarato persona non grata. Durante la sua assenza Hāfiz smantellò i centri del potere riducendo le Compagnie per la difesa da 60-70.000 uomini a 15-18.000 unità, e integrandole nell’esercito. Furono bloccate le attività di contrabbando del fratello. Solo a novembre Rifʿat ottenne il permesso di rientrare a Damasco, ma ormai non aveva più poteri: mantenne il suo posto nel comitato centrale ma non aveva diritto di parola. Gli furono tolte tutte le sue funzioni nel febbraio del 1998, al che seguì l’esilio in Spagna e in Francia.
Con la fine degli anni ottanta si aprì una nuova stagione politica per il regime di Damasco. Già dal 1986 il presidente siriano, in seguito a una visita a Mosca, cominciò a percepire i primi segnali del profondo cambiamento impresso all’Urss dalla nuova politica di Gorbačëv: la guerra fredda si stava ormai concludendo e il ruolo di Mosca sullo scenario mediorientale andava via via ridimensionandosi.
Assad pare che se ne accorse in tempo e, confermando ancora una volta il suo pragmatismo, si preparò ai nuovi equilibri cercando migliori relazioni con gli Stati Uniti, sempre più unico incontrastato attore della regione.
Così, in uno scenario che sembrava cambiare in fretta, Assad intendeva capitalizzare al meglio la sua nuova alleanza con Washington: l’adesione alla coalizione occidentale anti-Saddam nella guerra del Golfo del 1991, da una parte garantì alla Siria di mantenere le proprie truppe in Libano e, dall’altra evitò che un Iraq troppo potente potesse imporsi sugli equilibri regionali; sul piano diplomatico invece, con la convocazione da parte degli Stati Uniti della Conferenza di pace di Madrid, nell’autunno del 1991, il presidente siriano sperava finalmente di poter ottenere, attraverso un negoziato multilaterale, quella «pace giusta e globale» necessaria per far uscire il paese dal suo isolamento economico e politico. Questa volta fu la stessa amministrazione di Bush padre a convincere il ra’īs siriano a partecipare ai negoziati sulla base del principio «terra in cambio di pace» (secondo le risoluzioni Onu 242 e 338 che invocavano il ritiro israeliano completo dai territori occupati durante il conflitto del 1967). Ma non fu così e ancora una volta Assad si sentì raggirato da un’amministrazione Usa che promette ma non mantiene. Nel 1993, a Oslo, Israele raggiungerà un accordo con i palestinesi e, un anno dopo, con la Giordania. In questo scenario Assad vide avverarsi uno dei suoi peggiori incubi con lo stato ebraico sempre più stabilmente egemone nella regione e ancora padrone del Golan. L’altro duro colpo che l’anziano presidente dovette poi affrontare fu l’improvvisa morte, in un oscuro incidente stradale, del suo primogenito Bāsil, ormai destinato a succedere al padre alla guida del paese.
Già alla fine degli anni ottanta Assad aveva iniziato a spianare la strada al figlio, brillante ufficiale dotato di carisma e sorretto da un crescente seguito negli ambienti militari. Scomparso Bāsil, Assad richiamò in patria il suo secondogenito Bashār.
All’epoca ventottenne, il giovane Assad venne prima avviato a un’accelerata carriera militare e, quindi lanciato sulla scena politica e diplomatica regionale. In quegli stessi anni, il ra’īs di Damasco iniziò una vasta campagna di epurazione di tutti quegli elementi che avrebbero potuto ostacolare l’ascesa del giovane figlio: con l’accusa di corruzione o, più semplicemente, per ragioni di età, molte personalità autorevoli del partito e dell’esercito vennero messe da parte per far posto a Bashār e alla nuova generazione di ufficiali e amministratori del paese. Intanto Assad, ormai malato (ufficialmente di patologie cardiache) e logorato da più di trent’anni di lotte politiche, impiegò gli ultimi anni della sua vita per raggiungere il tanto atteso accordo con Israele. I contatti tra Damasco e Tel Aviv, dopo essersi interrotti nel 1996, ripresero con la mediazione di Washington verso la fine del 1999, ma anche questa volta, seppur a un passo dalla storica stretta di mano, il difficile compromesso non venne raggiunto. Così, l’incontro di Ginevra del febbraio 2000 tra il presidente americano Clinton e quello siriano Assad, fu l’ultima occasione per il ra’īs di Damasco per spiegare, ancora una volta che l’unica pace possibile per la Siria deve prevedere il ritiro totale israeliano dai territori occupati nel 1967.
Pochi mesi dopo, il 10 giugno 2000, Assad morì colpito – secondo i rapporti ufficiali – da un’ennesima crisi cardiaca e lasciò il paese nelle mani del trentaquattrenne Bashār.
Bashār al-Asad nacque a Damasco l’11 settembre del 1965. Dopo aver terminato gli studi primari e secondari all’Istituto Hurriyya si laureò nel 1988 in medicina all’Università di Damasco per poi specializzarsi in oftalmologia all’ospedale militare di Tishrīn.
Nel 1992 all’età di ventisette anni si recò in Gran Bretagna per proseguire la specializzazione e qui conobbe la sua futura moglie Asmā ʾ Akhras, cittadina britannica proveniente da una famiglia sunnita originaria di Homs.
Dopo la morte del fratello Bāsil, deceduto in un tragico incidente automobilistico, Bashār decise di tornare in patria dove il padre lo aveva designato suo successore.
Hāfiz riservò al suo secondogenito una formazione “accelerata” alla pratica del potere. Dapprima entrò nei ranghi delle forze corazzate (17 novembre 1994), venne nominato maggiore della Guardia presidenziale (gennaio 1995), si formò alla scuola di stato maggiore (1998) e fu infine nominato colonnello (1999). Subentrò al fratello nella carica di presidente della Società siriana di computer e si impegnò altresì in una campagna contro la corruzione negli uffici pubblici, il contrabbando e il traffico di droga che servì per contrastare possibili rivali. Alla notizia della morte del padre fu promosso dal grado di colonnello a quello di luogotenente e nominato comandante in capo delle forze armate. Nell’incontro con il Ministro della Difesa Mustafà Tlās, il capo di stato maggiore ʿAlī Aslan e il capo dei servizi di sicurezza interna Bahjat Sulaymān, gli venne assicurata la fedeltà delle istituzioni militari e della sicurezza.
In una sessione straordinaria, il parlamento varò un emendamento costituzionale che abbassava l’età richiesta per accedere alla presidenza della repubblica da quaranta a trentaquattro anni (l’età di Bashār). Il comando regionale del Baʿth si riunì nella notte per avanzare la candidatura di Bashār. Il congresso regionale iniziò i lavori come programmato da tempo (17 giugno 2000); proclamò all’unanimità a mani alzate Bashār capo del partito e del popolo (18 giugno); lo elesse segretario generale del Baʿth e lo propose alla presidenza della repubblica (20 giugno). Con un referendum plebiscitario, con il 97,29% dei voti, Bashār, unico candidato, fu eletto presidente della repubblica.
Il presidente siriano Bashar Hafiz al-Asad e sua moglie AsmāʾAkhras
Fin da subito il giovane presidente dovette confrontarsi con la bellicosa amministrazione di George W. Bush il quale, in occasione del suo discorso sullo stato dell’unione del 29 gennaio 2002, inserì la Siria insieme a Iraq, Iran e Corea del Nord nel famigerato “Asse del Male” (in inglese “axis of evil”) ossia quel gruppo di stati che secondo l’allora presidente degli Stati Uniti sarebbero impegnati nel sostenere il terrorismo internazionale e sviluppare armi di distruzione di massa.Il progetto di destabilizzazione della Siria risale a dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq (marzo 2003) ed è divenuto operativo con l’attentato all’ex premier libanese Rafīq al-Harīrī (febbraio 2005). Il piano antisiriano è nato e si è sviluppato sulla base del presupposto che fosse necessario sottrarre il Libano a quella che gli analisti hanno definito “Mezzaluna Sciita” ovvero l’alleanza, nata in seguito alla caduta di Saddam Hussein, fra Iran, Siria, Iraq ed Hezbollah che potrebbe porre lo Stato d’Israele in grave pericolo in caso di un attacco militare israelo-occidentale all’Iran. Tuttavia, l’assassinio di Harīrī, la guerra israeliana al Libano nel luglio del 2006, il Tribunale internazionale per il Libano, creato per piegare Beirut con il pretesto della caccia ai responsabili dell’attentato di Harīrī, non sono serviti a nulla. Il Libano è rimasto parte di un’alleanza che, nel febbraio 2010, è divenuta addirittura militare tra la Repubblica Islamica dell’Iran, la Siria e Hezbollah. L’intesa è stata sancita in occasione dello storico vertice di Damasco del 25 febbraio, a cui hanno preso parte il presidente siriano Bashār al-Asad, quello iraniano Mahmud Ahmadinejad e il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah. Da quel momento sono cambiati gli equilibri regionali e Tel Aviv si è trovata a dover fare i conti con un’eventuale azione militare congiunta nel caso avesse deciso di aggredire uno dei tre componenti dell’alleanza. Alcuni partecipanti a quel vertice, dopo l’incontro, hanno fatto dichiarazioni estremamente chiare. Hassan Nasrallah ha detto: «Se il Libano viene aggredito, non ci sarà angolo sicuro in Israele». Il vice di Nasrallah Naem Qassem ha affermato il 10 marzo 2010: «Chi aggredisce l’Iran non può illudersi che il giorno dopo possa continuare a vivere come se nulla fosse successo». Il presidente iraniano Ahmadinejad ha osservato laconicamente: «Se Israele aggredisce (senza specificare chi), la questione (israeliana) verrà risolta una volta per sempre».
Fu dopo quel vertice che si rese necessario accelerare i tempi per appiccare il fuoco alla Siria.
L’opposizione siriana – che secondo i file desecretati da Wikileaks avrebbe ricevuto a partire dal 2006 cospicui finanziamenti da parte degli Stati Uniti – organizzò nel marzo 2011 una serie di manifestazioni nel paese per protestare contro la corruzione del governo e per chiedere delle riforme. Sul modello già seguito durante il fallito golpe contro Chavez in Venezuela nel 2002 e poi messo di nuovo in pratica in Ucraina nel 2013 vennero infiltrati e pagati professionisti per sparare sulla folla in modo da causare morti. È il caos. I maggiori media internazionali, fra cui spicca la qatariota Al Jazeera, accusarono il presidente Bashār al-Asad di sparare sul proprio stesso popolo. Si tratta sempre dello stesso scenario utilizzato dagli Stati Uniti per liberarsi di un capo di Stato poco docile agli ordini di Washington. Come da copione una volta mobilitata l’opinione pubblica, in nome della democrazia e dei diritti umani, si inviano i bombardieri e si distrugge il paese. Soltanto che questa volta si è presentato un inatteso problema: l’intervento della Russia. Il piano occidentale fallì.
Non si poté più defenestrare Assad con la forza. Fu necessario trovare un’altra soluzione. Ed è qui che entra in gioco l’ISIS. Il sedicente Stato Islamico, che secondo le rivelazioni dell’ex impiegato della National Security Agency Edward Snowden sarebbe nato grazie alla collaborazione fra i servizi di informazione britannico e americano e il Mossad israeliano, occupando lo spazio territoriale che collega la Siria e l’Iraq spezzerebbe in tal modo quella “Mezzaluna Sciita”, che da Teheran passa per Damasco per arrivare fino a Beirut, e che costituisce il principale ostacolo alle mire egemoniche di Washington e del suo principale alleato lo Stato d’Israele in Medio Oriente.
_Mirella Galletti, Storia della Siria contemporanea, Bompiani, 2014
_Lorenzo Trombetta, Siria. Dagli Ottomani agli Asad. E oltre, Mondadori Education, 2014
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Gamberetti, 1995
_Frédéric Pichon, Siria: perché l’Occidente sbaglia? Saggio sul conflitto che insanguina il Medio Oriente, Fuoco Edizioni, 2016
source: http://dasandere.it/breve-storia-della-siria-moderna-dallindipendenza-alla-guerra-civile-2/