di Sebastian Mallaby, 17 gennaio 2017 Washington Post “Trump says Europe is in trouble. He has a point”
Il ministro degli esteri tedesco parla di “agitazione e incredulità“. Il presidente francese protesta con indignazione per il “consiglio esterno” non richiesto. Perfino il segretario di stato americano John F. Kerry considera il comportamento come “inopportuno“. L’intervista di questo fine settimana al presidente eletto Donald Trump, nella quale egli ha previsto la rottura dell’Unione europea, ha certamente attirato l’attenzione. Ma a parte la costernazione che ha sollevato, nel messaggio di Trump c’è del vero. La Ue, ha notato Trump, è dominata dalla Germania. “Le persone e le nazioni vogliono una propria identità“, ha detto.
La più ovvia conferma dell’ammonimento di Trump viene dalla Gran Bretagna, il cui primo ministro Theresa May ha appena definito il piano per una uscita “dura” dall’Unione Europea. La May avrebbe anche potuto interpretare in modo diverso l’esito del referendum di giugno sulla Brexit, cercando ad esempio un “modello norvegese”, con la partecipazione al mercato unico europeo, pur ritirandosi dalle strutture politiche della UE. Ma, per parafrasare Trump, il primo ministro ha evidentemente ritenuto che la Gran Bretagna dovesse mantenere la propria identità. La May è determinata a porre un freno all’immigrazione dalla UE, nonostante gli immigrati contribuiscano positivamente all’economia. Vuole uscire dalla Corte di giustizia europea, nonostante questo organo abbia in passato sostenuto anche gli interessi commerciali della Gran Bretagna. Nell’insieme, queste due posizioni escludono la partecipazione al mercato unico. La Ue sta per perdere la sua seconda maggiore potenza economica.
La Gran Bretagna è sempre stato un paese membro “a metà” dell’Unione europea, per cui il malessere nel cuore dell’Europa continentale è una prova ancora più forte del fatto che Trump ha colto il punto. Ironia della sorte, tutti i fattori che di solito si citano per spiegare la vittoria di Trump, sono in realtà ancora più evidenti dall’altro lato dell’Atlantico [cioè in Europa, NdT]: la crescita debole, le scarse prospettive per i lavoratori, la reazione contro i migranti, la disaffezione verso le élite al governo.
Agli americani può essere sembrato che la ripresa dopo la crisi finanziaria sia stata anemica. Tuttavia, correggendo per l’inflazione, l’economia americana è cresciuta di oltre 12 punti percentuali dal 2008 a oggi. Per contro, i 28 paesi dell’Unione europea hanno avuto una crescita complessiva di appena il 4 percento. E se considerate l’insieme dei paesi dell’eurozona tolta la Germania, il dato è addirittura negativo. Sebbene quest’anno il dollaro forte può aver aiutato l’Europa, la maggior parte dei paesi periferici, quelli sul Mediterraneo, hanno assistito a un decennio perduto.
Ovviamente questa prestazione economica così terribile ha avuto anche un costo umano enorme. Il tasso di disoccupazione nell’eurozona è al 9,8 percento, più del doppio di quello americano. La disoccupazione tra i giovani europei è ancora più spaventosa: in Grecia, Spagna, Francia, Croazia, Italia, Cipro e Portogallo, più di un quarto della forza lavoro sotto i 25 anni è disoccupata. La capacità che l’America ha avuto di rimettersi in piedi economicamente dopo il 2008 dimostra che non c’è nulla di scontato e inevitabile in tutto questo. L’Europa ha patito una catastrofe per decisione propria, e oltre a un decennio perduto si ritrova con una generazione perduta.
Le scelte che hanno portato a questa distruzione sono state prese per la gran parte in Germania, proprio come Trump sembra supporre. Angela Merkel, la cancelliera tedesca così sobria, riflessiva e anti-trumpiana, ha sistematicamente rallentato qualsiasi misura che potesse far ripartire l’economia europea. Lo stimolo fiscale, la ricapitalizzazione delle banche e, almeno all’inizio, la politica monetaria, sono stati deboli a causa della resistenza tedesca. A un certo punto di questo processo la Merkel ha agito per proteggere i risparmiatori tedeschi, il che è ragionevole, ma al tempo stesso conferma l’idea di Trump che gli interessi nazionali prevalgano sulla coesione europea. In altri momenti la Merkel non ha protetto nient’altro che la fobia tedesca per il debito pubblico e l’inflazione — senza curarsi affatto della situazione disastrosa in cui versavano i giovani nei paesi mediterranei.
La leadership europea così prudente da parte di Angela Merkel ha gettato i semi della reazione populista. C’è voluto un tempo incredibilmente lungo: per molti anni dopo l’inizio della crisi dell’euro, nel 2010, l’austerità e la disoccupazione di massa non sono state sufficienti a spingere gli elettori a votare contro i leader dell’establishment. Ma, come mostra un recente sondaggio in Italia, se ci fosse un’elezione oggi il Movimento 5 Stelle, anti-globalizzazione e anti-euro, prenderebbe tanti voti quanti il principale partito dell’establishment. In Francia i sondaggi prevedono che la leader anti-Ue Marine Le Pen possa arrivare al ballottaggio nelle elezioni presidenziali di primavera. Nella Germania della Merkel il consenso per il partito anti-immigrazione Alternativa per la Germania è balzato dal 5 percento del 2013 al 16 percento di oggi.
Se prendete Trump alla lettera, i suoi recenti commenti sull’Europa sono esagerati e confusi. I populisti possono essere in crescita ma manca ancora molto a una rottura dell’Unione europea. E denunciare la Merkel per avere aperto le frontiere del suo paese agli “immigrati illegali”, quando in realtà aveva rivolto un messaggio di benvenuto ai rifugiati, molti dei quali stavano scappando da guerre fomentate delle esitazioni degli stessi Stati Uniti, è irritante e ottuso. Ma se prendete Trump sul serio più che alla lettera — per citare una splendida distinzione fatta da Salena Zito in Atlantic — bisogna ammettere che il presidente eletto ha detto delle verità. L’Europa ha gravi problemi. È tempo che i suoi leader si accorgano che l’insieme delle politiche condotte stanno mandando in rovina gli europei.