Testo, rielaborato, della conferenza tenuta presso il Centro Culturale Amici de il Timone «Beato Carlo d’Asburgo», parrocchia di San Paolo Apostolo, Parma, 21 settembre 2007.
Alla luce di questa triplice dimensione in cui s’inquadra del personaggio s’intuisce che molti sarebbero gli aspetti da considerare, se volessimo affrontarne uno studio esauriente. Bisognerebbe in primo luogo capire che cos’è stato l’impero cristiano e quale relazione ebbero con esso gli Asburgo, poi chi fu Carlo, cioè descrivere che cosa fece, sia come persona privata sia come sovrano, quindi spiegare per quali motivi la Chiesa ha ritenuto di dichiararne — anche se in via ancora non definitiva — la santità e che cosa essa si sia prefissa di trasmettere, d’insegnare, e d’insegnare agli uomini del nostro tempo, attraverso questa sanzione solenne.
Cercherò di trattare un po’ tutti questi aspetti, anche se, come comprensibile, non in maniera certo esauriente e conclusiva, attingendo quasi esclusivamente alla letteratura su Carlo in italiano, ben consapevole che la maggior parte degli studi su di lui, soprattutto quelli più scientifici e recenti, si trova tuttora solo in lingua straniera.
I. Gli Asburgo
Inizio dalle «radici» di Carlo, ossia dalla sua famiglia, da quegli Asburgo, cioè che furono gli ultimi eredi in Occidente della suprema magistratura della Cristianità e furono visti sempre come l’emblema dell’idea imperiale cristiana medesima.
Per capire quale sia stato storicamente il ruolo della casata nella genesi e nello sviluppo dell’Europa moderna sono estremamente illuminanti alcune righe dello storico e letterato svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970).
In un suo volume dedicato alle origini della Germania (1), che pubblica nel 1939, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, egli descrive come nel X secolo, da Habsheim, nell’attuale Alsazia, cioè nel nord-est della Francia odierna, il nucleo originario della famiglia si trasferisca nell’Aargau — o Argovia —, nel sud dell’allora monarchia franca, probabilmente a causa di un matrimonio, e nel 1020 vi eriga la dimora patrizia, appunto quell’Habsburg, il castello di Habs, dal nome che trae origine da Haben, ossia averi, patrimonio. «Asburgo» significa dunque «casa del patrimonio». Feudatari di medio rango dell’Impero, gli Asburgo si sforzeranno un po’ alla volta nei secoli — e con successo — di estendere il loro dominio territoriale e il loro patrimonio di diritti in una zona politicamente cruciale, perché posta al crocevia delle linee di comunicazione nord-sud ed est-ovest dell’Europa di allora.
In questa sua costante affermazione, l’ormai media potenza tedesco-meridionale dei signori di Habsburg si scontrerà però con i montanari dei primi cantoni «svizzeri», che a dispetto dell’origine «svizzera» degli Asburgo, ingaggeranno contro di loro e contro l’Impero una dura lotta per mantenere le loro autonomie e i loro privilegi.
Ma l’impasse svizzera non arresterà l’ascesa della dinastia, la traiettoria farà un balzo — e un salto di qualità — con l’elezione al titolo di Sacro Romano Imperatore di Rodolfo, conte d’Asburgo e conte di Kyburg, nonché landgravio di Thurgau e conte di Löwenstein (1218-1291), nel 1273. Con la vittoria militare su Re Ottokar II di Boemia (1230-1278), nel 1278 Rodolfo I d’Asburgo conquista il diritto ereditario sulla Ostmark, la marca orientale — nome che verrà risuscitato dai nazionalsocialisti dopo l’annessione dell’Österreich, il regno dell’est, al Terzo Reich nel 1938 —, ossia sull’Austria, e il perno della dinastia si sposta così dal Reno al Danubio.
La conquista della dignità imperiale non sarà un passaggio privo di conseguenze. De Reynold sottolinea il paradosso di un impero territorialmente sempre più grande, che raggiungerà un’estensione addirittura pluri-continentale nell’età di Carlo V (1500-1558) e che, al contrario, avrà un peso costantemente debole fra gli elettori germanici. Anche quando, nel secolo XV, inizierà, pressoché ininterrotta fino al secolo XIX, la catena degl’imperatori di casa asburgica, essi dovranno fare sempre i conti con i regni e i principati dell’area germanica sui quali la loro egemonia sarà sempre instabile.
«Sappiamo — scrive ancora de Reynold degli Asburgo — in che maniera il loro impero si è formato: attraverso eredità disperse e disparate. Ma un’eredità la si guarda come una proprietà acquisita non come una parte di sé stessi. Dopo il loro sradicamento dalla Svizzera, gli Asburgo non riuscirono a radicarsi da nessuna parte. Erano tedeschi, fiamminghi, spagnoli o lorenesi? Questo spiega la loro impotenza nazionale: non sono mai riusciti a farsi sostenere da un popolo perché essi stessi non appartenevano ad alcun popolo, ma un po’ a tutti. Alla fine, non finirono per essere altro che i primi borghesi di Vienna, il che non bastava» (2).
E questa duplice caratteristica accompagnerà la vita dell’impero fino al 1870, quando sorgerà l’altro impero germanico, il Reich prussiano creato da Otto di Bismarck (1815-1898), che porrà fine al primato di Vienna.
L’impero asburgico sarà egemone anche nel resto dell’Europa fino all’incirca al 1600. Solo i sovrani francesi, accerchiati dai domini asburgici — a nord nelle Fiandre, a ovest in Spagna, a est in Germania e in Austria —, cercheranno nella prima età moderna di resistere e di contrastare la preponderanza della dinastia imperiale.
L’impero verrà ridimensionato e ricollocato in un più duraturo quadro geo-politico solo dopo la Guerra dei Trent’anni (1618-1648), scatenata per ragioni religiose da un Asburgo, Ferdinando II (1578-1637), arciduca d’Austria e re di Boemia e d’Ungheria. Il terribile conflitto si chiuderà con enormi devastazioni, in particolare nell’area germanica, e con un fatale insuccesso per gli Asburgo. Dopo i Trattati «di Westfalia» del 1648 nascerà un ordine europeo rinnovato: la Francia romperà l’accerchiamento e si avvierà a sua volta verso l’egemonia continentale; gli Asburgo saranno espulsi dal tormentato contesto degli Stati germanici, nel quale nascerà l’astro della Prussia; l’asse del potere imperiale si sposterà ancor di più, e questa volta per sempre, verso l’area danubiana e i Balcani, dove l’antagonista non sarà più l’antica monarchia franca, ma l’Impero ottomano.
A queste debolezze, tuttavia, fa storicamente da contrappeso una forza morale inesauribile, alimentata dall’idea imperiale e dall’auto-attribuzione da parte della dinastia del primato nel ruolo di sostegno e di espansione della cristianità. Carlo V, rielaborando l’ideale di monarchia universalis nei tempi successivi alla Riforma — ispirato in ciò dal politologo «italiano» e Cancelliere imperiale cardinale Mercurino Arborio da Gattinara (1465-1530) (3) —, fu ben consapevole di questa forza della sua casata. Ma lo scisma politico post-luterano e la costante ostilità della Francia ne vanificarono il disegno.
Per questo il definitivo riflusso verso quadrante geo-politico balcanico, che si rivelò alla lunga più consono alla natura e alle capacità della dinastia, fu contemporaneamente un fallimento e una garanzia di durata nel tempo.
Scrive ancora magistralmente lo storico svizzero: «La sfortuna degli Asburgo è di essere venuti troppo tardi e troppo presto. Troppo tardi per il Sacro Impero e troppo presto per una Società delle Nazioni europee. La loro comparsa è coincisa con la formazione dei grandi Stati moderni e il risveglio delle nazionalità. Essi appartengono così a un periodo di transizione fra il mondo feudale e il mondo moderno. Hanno dovuto vivere su un compromesso fra l’assolutismo e il liberalismo. L’estensione stessa del loro impero ha creato loro difficoltà ovunque e ha impedito loro di condurre a termine la loro politica» (4).
«[Gli Asburgo] hanno incarnato il principio più opposto al nazionalismo, cioè alla frammentazione europea, alla scomparsa dell’Europa. Questo nazionalismo, Metternich [(5)] l’aveva svelato sotto il mantello del giacobinismo e nei carri di Napoleone; ne aveva previsto in anticipo e denunciato le devastazioni. Si comprende quindi come il solo nome di Asburgo provochi l’odio feroce del nazionalsocialismo. Esso rappresenta l’altra Germania, quella che il nazionalsocialismo sta finendo [nel 1939, NdR] di distruggere come la Rivoluzione francese ha distrutto la Francia borbonica» (6).
L’Impero asburgico, da allora in poi, diventa solo una grande monarchia pluri-nazionale centro-europea, la cui ultima versione, l’Impero di Austria-Ungheria, nato nel 1867 dopo l’Ausgleich, l’equiparazione giuridica all’Austria della Corona ungherese, conservava ancora in certa misura, nella sua struttura e amministrazione, e, soprattutto, nella cultura di chi la governava e di chi ne era suddito, l’antico ideale politico imperiale, ordinatore e civilizzatore delle nazioni più giovani.
II. Carlo I
1. La vita
Carlo sarà l’ultimo esponente regnante di questa grande tradizione politica plurisecolare e, più in generale, l’ultima espressione dell’ideale di un’autorità temporale universale posta al servizio del Vangelo. Per inciso, vale la pena di segnalare una coincidenza: l’impero sacro e romano si era aperto con un Carlo, Carlo Magno (742 o 747-814), si era riproposto in età moderna con un secondo Carlo, Carlo V, e si chiude con un terzo Carlo, Carlo d’Austria.
Carlo nasce nel 1887 nel castello di Persenbeug, sulle rive del Danubio, nell’Austria Inferiore. È il figlio primogenito dell’arciduca Otto Franz di Asburgo-Lorena (1865-1906) e della principessa Maria Josefa (1867-1944), figlia di Re Giorgio I Federico Augusto di Sassonia-Wettin (1832-1904); avrà un solo fratello, Massimiliano Eugenio (1895-1952). Il padre Otto è figlio dell’arciduca Carlo Lodovico (1833-1896), fratello di Francesco Giuseppe (1830-1916), che è, dunque, il prozio di Carlo.
Il piccolo Asburgo è destinato a ricevere la tipica educazione di Stato, quella che veniva riservata ai principi del sangue, una educazione, che tuttavia, da quando, nel Settecento, era nato l’attrito fra l’Impero e la Chiesa, non era esente da tratti di laicismo (7) e a un certo spirito critico nei confronti di Roma.
La madre è molto religiosa e ben attenta alla vita spirituale del figlio. Josefa riesce tuttavia a ottenere dal padre — che godeva fama, non del tutto infondata, di persona «leggera» — che Carlo sia educato, almeno nei primi anni, religiosamente. Così egli viene affidato a istitutori e a catechisti di fiducia della madre, che avvieranno il piccolo arciduca alla vita di fede e di preghiera, abituandolo fin da piccolissimo alle rinunce e ai sacrifici per amore di Dio. Per questo Carlo vivrà con particolare intensità i sacramenti della penitenza, dell’eucaristia e della cresima, che da poco erano stati resi accessibili anche ai fanciulli grazie ai decreti di Papa san Pio X (1903-1914).
Sotto l’influsso dei gesuiti viennesi, che frequenta durante gli anni del liceo, Carlo inizia ad acquisire familiarità con le forme di spiritualità più genuinamente ignaziane: l’orazione mentale e la meditazione, l’esame di coscienza e i ritiri, come pure le devozioni al Sacro Cuore, al Cristo eucaristico e alla Vergine, che lo accompagneranno e lo sosterranno per tutta la sua breve esistenza.
L’adolescenza di Carlo non è esteriormente diversa da quella degli altri rampolli della nutrita famiglia imperiale o della nobiltà di corte: solo è un po’ più riservato e serio dei coetanei. Ma il giovane non si isola affatto, partecipando di buon grado ai ritrovi e ai passatempi dell’aristocrazia del tempo: feste, balli, cacce, cavalcate, gite in comitiva.
A diciotto anni inizia contemporaneamente la carriera delle armi e gli studi universitari, che segue privatamente presso l’università di Praga, dove è di stanza il reggimento di cavalleria cui è stato assegnato.
Nel 1911, dopo un fidanzamento-lampo, sposa la diciannovenne principessa italo-francese Zita di Borbone-Parma (1892-1989), figlia di secondo letto dell’ultimo Duca di Parma Roberto I (1848-1907), che era stato esiliato ancora fanciullo dai plebisciti unitari del 1859.I giovani si preparano alle nozze frequentando ciascuno un breve corso di esercizi spirituali. Abbracceranno il nuovo stato di vita in maniera genuinamente cristiana e anche non poco anti-conformistica, visto il romanticismo deteriore che già all’epoca imperversava in materia di relazioni affettive. Carlo e Zita vedranno anzi nello stato coniugale un mezzo privilegiato di santificazione. Alla coppia nasceranno ben otto figli: Carlo li educherà tutti — tranne l’ultimo, che nascerà postumo — compatibilmente con il suo ruolo pubblico, ma sempre con premura e piena coscienza dell’importanza della presenza del padre nel formare la personalità, quindi nel determinare il destino eterno e terreno dei figli.
Nell’attentato di Sarajevo, in Bosnia, del 28 giugno 1914 muore l’erede al trono asburgico Francesco Ferdinando d’Austria-Este (1863-1914), figlio, anch’egli, come il padre di Carlo, dell’arciduca Carlo Lodovico, e quindi zio di Carlo e anche suo tutore legale, dopo la morte di Otto nel 1906. L’assassinio segna una brusca svolta nella vita di Carlo. Finiscono per lui gli anni della gioventù «dorata» e il giovane arciduca, che viene a trovarsi primo in linea successoria, deve prepararsi a succedere all’imperatore Francesco Giuseppe, ormai al tramonto della vita.
Poche settimane dopo Sarajevo, scoppia un nuovo conflitto fra le potenze europee, che da ennesimo conflitto continentale diventerà a poco a poco uno scontro globale.
Carlo è scettico su una guerra che gli sembra stare più a cuore all’imperatore tedesco Guglielmo II di Hohenzollern (1859-1941) che non agli Asburgo. Tuttavia combatte con valore dapprima sul vasto fronte orientale — dove si muovono masse di milioni di combattenti — contro gli eserciti russi e rumeni. Poi, nel marzo del 1916, dopo le sconfitte russe, viene assegnato al fronte italiano, dove gli viene affidato il comando del XIV Corpo d’Armata alpino Edelweiß (stella alpina).
Alla morte di Francesco Giuseppe, il 21 novembre, nella reggia di Schönbrunn il giovane Carlo viene proclamato dalla Corte successore nell’impero. E i testimoni raccontano che accoglie l’investitura in ginocchio, con il rosario fra le mani.
Nella «duplice monarchia» egli sarà Carlo I, imperatore d’Austria, e Karol IV, re apostolico di Ungheria.
La sua ascesa al trono avviene nel pieno del conflitto ed è accompagnata dalla simpatia della gente, che ne ammira la figura giovane e affascinante, ma vi è anche chi lo considera troppo inesperto e un uomo di eccessiva austerità morale. Carlo, tuttavia, sia come sovrano, sia in veste di comandante supremo delle armate imperial-regie, saprà farsi valere, anzi, il suo stile piacerà e la sua politica aprirà nuovi e inediti scenari — purtroppo vanificati dalla sconfitta — alla vecchia monarchia danubiana. Nonostante il quadro di fondo di una guerra-monstre, sfuggita di mano a tutti i suoi artefici, e, quindi, in uno stato di grave emergenza — ed è questo un dato che va tenuto costantemente presente nel giudicare le azioni di Carlo —, le sue iniziative politiche sul fronte interno non sono poche.
Fa approvare una riforma in senso federalistico degli antichi Stati, un atto quanto mai indispensabile per depotenziare la grave minaccia rappresentata dal nazionalismo moderno. Il provvedimento arriverà purtroppo tardi e l’ideologia dello Stato-nazione, che già aveva iniziato a corrodere — con successo, almeno se pensiamo all’Italia — la struttura imperiale nel corso del secolo XIX, alla fine sarà fatale all’impero. Vara leggi contro la scristianizzazione e contro l’immoralità pubblica, che in quei decenni d’inizio Novecento iniziavano a diventare una piaga sociale. Non dimentichiamo infatti che nel 1916 Vienna è ancora la città di Francesco Giuseppe — l’archetipo del buon governo — e dei valzer di Franz Lehar (1870-1948), ma è anche l’enorme città — due milioni e duecentomila abitanti — dove si manifestano i fermenti estremi della cultura moderna, se non addirittura i fenomeni di avanguardia della post-modernità: dalle teorie esoterico-razziste degli ariosofisti — che «prepareranno» il nazionalsocialismo —, all’occultismo neo-pagano, alla psicanalisi freudiana, alla pittura astratta, alla musica dodecafonica di Arnold Schönberg (1874-1951). E ancora: per decisione di Carlo la corona abroga spontaneamente alcuni antichi privilegi dello Stato in materia ecclesiastica; vieta il duello ai funzionari dello Stato e ai militari; promulga un’amnistia generale, anche per i delitti politici; si sforza di dar sollievo al disagio sociale, ingigantito dallo sforzo bellico, arrivando al punto di devolvere al popolo le dotazioni alimentari della famiglia imperiale e di far macellare alcuni dei cavalli di corte; si preoccupa, infine, delle vittime della guerra: le migliaia di orfani e di vedove, e la sterminata moltitudine dei prigionieri di entrambi gli schieramenti.
Oltre a tutto questo e al disopra di tutto, Carlo tenterà l’impossibile — e non è solo un modo di dire —, farà cioè ogni sforzo diplomatico in suo potere per far cessare un conflitto che nel 1917 ha perso ormai ogni senso, divenendo sempre più simile una colossale quanto «inutile strage» di popoli — così si esprimerà Papa Benedetto XV (1914-1922) —, un’autentica ecatombe della miglior gioventù europea.
Carlo nel suo breve regno si segnala non solo come uomo di governo e come diplomatico: anche nella conduzione della guerra metterà in luce le sue doti e il suo cristianesimo. Guiderà le sue armate con grande valore, ma cercherà nel contempo di bandire o di limitare l’uso delle armi moderne più barbare, come quelle batteriologiche e come i gas asfissianti; si opporrà decisamente alla guerra sottomarina e vieterà i bombardamenti dal mare e dall’aria che coinvolgano le popolazioni civili. Anche per questo si scontrerà spesso con il potente e diffidente alleato tedesco, rivale da sempre della cattolica Austria nell’egemonia sul mondo germanico.
Evidenzierà uno stile personale che non si rivelerà mai fazioso verso il nemico e sarà anche alieno dalla tradizionale alterigia dei comandanti verso i subordinati, dei quali vorrà invece condividere la stessa vita di trincea, lo stesso rancio e gli stessi rischi. Così, egli saprà infondere una grande fiducia nel suo esercito, che combatterà con valore, riportando spesso la vittoria. Anzi, il complesso militare-industriale austro-ungarico sarà capace di reggere uno sforzo bellico così elevato, che nessuno agli esordi della guerra sarebbe stato in grado di prevedere. E le sue armate lo ricambieranno con l’affetto e, a differenza dei politici, gli si manterranno fedeli fino all’ultimo, quando tutto si sgretolerà.
Se la sua giovinezza, il suo carisma, l’integra e aperta professione del suo credo religioso gli attirano molte simpatie, Carlo sarà altresì bersaglio di attacchi da più parti.
Il nemico vede nella sua lealtà, nel suo sforzo di contenere l’orrore della guerra e nel suo desiderio di pace altrettante debolezze. Spesso poi lo stesso alleato germanico, lo sprezzante compagno di trincea, legge l’atteggiamento di Carlo come un tradimento mascherato. Infine, gli avversari ideologici dell’idea monarchica e del cattolicesimo — presenti peraltro in entrambi gli schieramenti in lotta — vedranno nel suo «cristianesimo vissuto» e nella sua intensa devozione verso il Papa il rischio di una svolta «clericale» nella politica imperiale.
Anche per questo — oltre che per il fatto che l’Austria-Ungheria era ancora l’emblema della monarchia cattolica — le democrazie dell’Intesa riserveranno alla monarchia asburgica un atteggiamento particolarmente duro nel corso della guerra e poi, una volta sconfittala, una sorte particolarmente ingiusta nei trattati di pace.
Secondo lo storico franco-ungherese François Fejtö, l’Austria-Ungheria era stata «condannata a morte» dagli ambienti massonici, che condizionavano la politica dei governi francese, belga e italiano, ancor prima che iniziasse il conflitto. Questi stessi soggetti faranno infatti l’impossibile, poi, per sabotare ogni iniziativa di pace di fonte austriaca — ne restano documentate più di trenta — che prevedesse la sopravvivenza della monarchia, così come cercheranno di infamare un sovrano, ritenuto suscettibile di prese di posizione «pericolose»; infine, facendo leva sui nazionalismi, riusciranno a disintegrare la vecchia monarchia, ad abbatterne le antiche istanze rappresentative e a espellere dal suolo patrio una dinastia che aveva governato molti popoli, in maniera tutt’altro che riprovevole e per centinaia di anni.
Nel novembre del 1918 la monarchia austro-ungarica è ancora invitta sul piano militare, ma viene l’integrità dello Stato viene scardinata lo stesso: il suo assetto viene rotto dall’insurrezione politica delle nazionalità e l’impero crolla di schianto. Dopo l’armistizio, il sovrano finisce praticamente tagliato fuori dalla vita politica, che si è ormai spostata nei parlamenti di Vienna, di Praga, di Budapest, i quali stanno optando tutti per una soluzione repubblicana.
Carlo non abdica, ma si limita a sospendere l’esercizio dei suoi poteri costituzionali, in attesa delle decisioni dei rappresentanti dei popoli. Vista la scelta repubblicana delle nuove classi dirigenti, opterà per l’esilio in Svizzera, rinunciando così, data la mancata abdicazione, a tutti i beni di famiglia, che saranno incamerati dai nuovi Stati e mai più restituiti. I giovani Asburgo dovranno quindi tutti rifarsi una posizione nella vita — e vi riusciranno — da soli, senza poter contare più sull’appoggio familiare in linea paterna. L’anima della famiglia Asburgo diventerà la vedova di Carlo, Zita che gli sopravviverà per ben 67 anni. Zita alleverà i figli suoi e di Carlo nella fede e li sosterrà sempre, finché potrà, insieme ai nipoti che ben presto giungeranno, lungo il corso della loro vita. Anche il figlio primogenito Otto — oggi novantacinquenne — cercherà di tener fede alle tradizioni di famiglia dando vita a un movimento federalista europeo in cui si potranno riconoscere, pur nelle mutate forme, gli ideali di pace e di libertà che già erano stati di Carlo.
Questi tenterà a due riprese nel corso del 1921 di riconquistare almeno la Corona di Santo Stefano — quella cui si sentiva più religiosamente legato, forse perché aveva ricevuto l’unzione sacra di Re Apostolico d’Ungheria (8) —, in una Ungheria dove, dopo la breve e sanguinosa parentesi del 1919 in cui si era instaurata la dittatura dei soviet di Bela Kun (pseudonimo di Ábel Kohn; 1886-1938), nominalmente è stata restaurata la monarchia sotto la reggenza dell’ammiraglio Miklós Horthy (1868-1957), ex subordinato di Carlo, a lui legato dal giuramento militare. Carlo, entrambe le volte, sarà illuso e poi abbandonato dal «reggente» e dovrà abbandonare la partita. Non abdicherà neppure questa volta ai suoi diritti sovrani e per questo gli Alleati lo imprigioneranno, confinandolo nella remota isola atlantica di Madera, dove chiuderà i suoi giorni nelle ristrettezze e nei disagi. Morirà, stroncato da una polmonite, forse strascico dell’influenza «spagnola» che era infuriata nel dopoguerra, il 1° aprile 1922.
A suggello di una vocazione laicale esemplarmente vissuta, il Signore concederà a Carlo di chiudere gli occhi alla presenza del primogenito Otto, fra le braccia della sposa e in contemplazione della santissima Eucaristia.
Gli anni di governo sono stati per Carlo anni di prova e di sofferenze soprattutto morali — perderà il trono, i beni di famiglia, dovrà lasciare la patria, temerà per la vita della sposa e dei figli — e lo sorreggeranno solo la sua intensa preghiera e l’illimitata fiducia nell’Altissimo, nonché l’affetto di cui i familiari e pochi intimi lo circondano. Soprattutto in questi anni egli vive in maniera nuova ed eroica, come ha riconosciuto la Chiesa, quelle virtù del cristiano che già aveva acquisito durante la vita di arciduca e di erede al trono, di sposo, di padre, di soldato.
Mi piace sottolineare la straordinaria apertura alla vita che Carlo e la sua sposa Zita hanno testimoniato, tenendo fede a una tradizione squisitamente asburgica. Se è vero che per una coppia reale non era un problema allevare molti figli, resta però il fatto che i due sposi potevano chiudersi assai facilmente nell’egoismo, godersi la bella vita oppure accampare a pretesto per non mettere al mondo figli le traversie in cui erano caduti: invece non lo faranno mai, nemmeno negli anni dell’esilio e del dolore.
La regalità imporrà a Carlo d’Austria un fardello nuovo, gli farà vivere nuove sfide, in cui le sue virtù avranno modo di fortificarsi e di brillare.
2. La fine della monarchia danubiana
I paesi già imperiali nell’autunno del 1918 festeggiano la libertà, ma devono fare ben presto i conti con la nuova realtà. La casa comune e il paterno defensor civitatis non ci sono più. Ogni Stato-nazione può contare solo su sé stesso per difendersi dall’ostilità dei numerosi vicini. Le creature politiche post-asburgiche partorite a Versailles, finiranno per incorporare ciascuna non poche minoranze allogene, sì da sembrare a loro volta degli «imperi in sedicesimo» piuttosto che degli Stati nazionali, e dovranno far fronte ben presto anch’esse alla questione dell’irredentismo, trovandosi cioè alle prese con nazionalismi altrettanto spietati e non più con il multi-nazionalismo paternalistico degli Asburgo. Gli Stati nati dalle ceneri dell’Impero dovranno percorrere in realtà un lungo e tormentato iter in cerca della stabilizzazione. Negli anni 1930 Austria, Boemia, Ungheria, Slovacchia, Croazia conosceranno dittature conservatrici e poi cadranno gradualmente nell’orbita o sotto il giogo del Reich nazionalsocialista, per, finire, da ultimo, dopo il nuovo atroce conflitto mondiale, preda dell’impero comunista e soffriranno per decenni sotto regimi totalitari, atei e collettivisti.
La caduta «pilotata» dell’impero di Carlo lascerà al centro dell’Europa un vuoto, un «buco nero», che realtà politiche artificialmente pluri-nazionali come la Cecoslovacchia o la Jugoslavia monarchica e poi nazional-comunista non riusciranno a colmare se non in maniera effimera. Un vuoto che genera tuttora instabilità nella culturalmente frastagliata area danubiana e balcanica. In Jugoslavia, dopo la morte del dittatore comunista di origini croate Josip Broz Tito (1892-1980) e la rimozione del Muro di Berlino (1989), fra il 1991 e il 2001, sono scoppiate guerre etnico-civili sanguinose, cui solo l’intervento internazionale ha posto freno e dove oggi è necessaria la presenza degli eserciti della Nato per impedire nuove e più selvagge «pulizie etniche».
III. Il beato
La santità del beato Carlo credo stia proprio in questo: che egli, nel ruolo unico di re e imperatore, seppe continuare a vivere le beatitudini cristiane adattandole al nuovo e non facile stato.
Se è vero che, come insegna san Giacomo nella sua lettera scritturale — «Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza» (Gc 5, 11) —, la pazienza rappresenta la quintessenza della santità, Carlo, con tutte le umiliazioni che ha dovuto sopportare, ha di certo varcato «la soglia della speranza» e raggiunto la beatitudine. Se vogliamo scegliere la beatitudine che più gli si addice, non possiamo non vederla in quella di «operatore di pace», in cui si distinse sia nei rapporti famigliari, sia come imperatore e capitano supremo.
1. L’iter
Fin da subito dopo la sua morte in esilio si diffuse la fama di santità dell’ultimo degli Asburgo. Nacque ben presto un’associazione, l’Unione di Preghiera — o Gebetsliga, in tedesco —, animata da Zita, da parenti ed estimatori della migliore società europea di tutte le classi, che si mise alacremente all’opera per conservare la memoria di Carlo e per ottenerne la beatificazione. Fu un lavoro oscuro e tenace che dovette arrestarsi tuttavia davanti al livore nazionalsocialista e poté riprendere solo dopo la caduta di Hitler, il caporale austriaco che manifestava un autentico odio per Carlo.
Ma l’ostilità contro Carlo e contro ciò che egli rappresentava che aveva dovuto subire in vita continuò anche dopo la seconda guerra mondiale e non furono poche le pressioni «discrete» sul Vaticano per fermare o rallentare l’iter del suo processo di santificazione. I nazionalisti austriaci, i progressisti, cattolici e «laici», le logge austriache ed europee: tutti intravedevano uno scacco e un pericolo nel trionfo anche solo postumo, anche solo spirituale, che si preparava per l’antico avversario.
Carlo opera il miracolo, determinante a norma canonica per la beatificazione, nel 1960, quando una semplice suora polacca operante in Brasile si trova fra le mani una immaginetta di Carlo, diffusa fin là dall’Unione di Preghiera, ne invoca l’intercessione per ottenere la guarigione da una grave infermità alle gambe e nel corso della notte inspiegabilmente si trova guarita.
Il processo canonico durerà oltre ottant’anni, ma alla fine il traguardo sarà tagliato. E ciò avverrà anche grazie al papa polacco, Giovanni Paolo II — di cui era nota l’insensibilità alle cautele politiche in materia di santità —, il quale, al tramonto del suo pontificato, imprimerà una drastica accelerazione alla causa, e così il 3 ottobre 2004 Carlo d’Austria sarà proclamato beato in piazza San Pietro: la sua festa sarà fissata per il 21 di ottobre, il giorno delle sue nozze con Zita.
2. Il senso
Cercando di approfondire il senso della beatificazione di Carlo d’Austria all’alba del terzo millennio cristiano, in primis non bisogna dimenticare che Carlo è stato dichiarato sì beato, ma non è ancora santo e che quindi bisogna ancora agire e pregare perché lo diventi: soprattutto affinché compia un secondo miracolo, pre-requisito richiesto dal diritto canonico.
Poi, che Carlo è chiamato beato per come è vissuto e per come è morto, cioè esemplarmente, nonostante le debolezze umane, nella vita privata e negli atti di governo, da cui egli, come tutti, non fu esente; non ultimo, poi, perché ha compiuto un miracolo post mortem: il che fa passare tutto il resto in secondo piano.
A capire meglio questo senso aiuta Papa Giovanni Paolo II (1978-2005), il quale, nell’omelia pronunciata il 3 ottobre 2004 durante la cerimonia di beatificazione, così si è espresso: «Il compito decisivo del cristiano consiste nel cercare in tutto la volontà di Dio, riconoscerla e seguirla. L’uomo di Stato e cristiano Carlo d’Austria si pose quotidianamente questa sfida. […] Fin dall’inizio, l’Imperatore Carlo concepì la sua carica come servizio santo ai suoi popoli. La sua principale preoccupazione era di seguire la vocazione del cristiano alla santità anche nella sua azione politica. […] Sia un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica!».
Dunque, secondo il servo di Dio Papa Wojtyła, si può essere santi sempre, in qualunque ruolo la Provvidenza ci assegni, come anonimo quidam de populo (Esd 2, 70), come ardente apostolo della carità, e anche come imperatore. Ancora, si può diventare santi anche facendo politica, purché sia una politica «di servizio santo», perseguendo la santità anche nell’azione politica. Troppo spesso si sente ripetere che «la politica è una cosa sporca», che insudicia chi la pratica, che il cristiano deve «fare profezia e non politica», che «occorre coltivare la spiritualità “della tenda” e non “della città”». Carlo — e il Pontefice romano, beatificando Carlo — smentisce questa prospettiva da «anime belle».
Carlo non ha scelto di diventare imperatore, ma una volta che la Provvidenza gli ha affidato il destino dei popoli della sua monarchia in un frangente del tutto drammatico ed eccezionale Carlo non si è tirato indietro: semplicemente ha trasferito nel nuovo contesto il suo spirito cristiano e ha affrontato con questo medesimo spirito le nuove e inedite sfide che gli si ponevano davanti. Il fine è per lui sempre il medesimo: il bene comune, la salvezza dei popoli che Dio gli ha dato da difendere e da guidare. Certo, nel nuovo stato la vita per lui si farà dura, conoscerà la doppiezza, la viltà, il tradimento anche delle persone a lui più vicine. Subirà un esilio, l’onta della prigionia e della deportazione, infine una morte precoce, in povertà e abbandonato da tutti.
Ma egli ha vissuto il duplice declino, suo e della monarchia, intrepidamente, con fermezza e quasi con durezza verso di sé e verso i suoi cari ed è grazie a questo contesto — e non: «malgrado questo contesto» — che egli si è conquistato la santità.
In questo senso, Carlo rappresenta un esempio e un modello soprattutto per chi vive la vita politica, all’interno della città, nei partiti politici, nella formazione civico-culturale.
Un altro luogo comune da sfatare è che Carlo, in quanto aristocratico e imperatore, sia un santo «di destra». Carlo — e con lui di nuovo il Papa — contribuisce a smantellare l’idea che la santità sia monopolio dei poveri, dei semplici, di chi fa la carità materiale, di chi immerge le mani nelle piaghe dei sofferenti e dei poveri, secondo il modello di santità del «prete di strada» o della beata madre Teresa di Calcutta (1910-1997). Nella Chiesa non esistono solo «santi degli ultimi»: con tutto il rispetto per le altre vie, esistono anche i «santi dei primi». È cioè possibile, con gli stessi «diritti» di cittadinanza dell’altra scelta, praticare una santità vissuta in quegli ambienti dove regnano la povertà o la malattia ma dove domina l’agio e dove magari gli ostacoli da vincere sono l’orgoglio di casta e il puntiglio d’onore. L’infinita schiera dei santi di Dio che l’Apocalisse ci raffigura, contiene una pluralità di soggetti, di uomini e donne di tutti i tipi e condizioni e vocazione: ci sono i santi degli ultimi, i santi del popolo, i santi pontefici, gli asceti, gli eremiti, i confessori, i fondatori, eccetera… E ci sono anche i re e gli imperatori santi. E questi — udite, udite —, quando sono proclamati beati, vengono effigiati sulla facciata di San Pietro, non in borghese — come si era sospettato fino all’ultimo sarebbe successo a Carlo —, ma con la loro bella divisa militare dai magnifici colori.
IV. La lezione
Concludendo, Carlo vive agli esordi del «secolo breve», di quel XX secolo, che è il «secolo del male» secondo Alain Besançon. Egli è l’ultimo vivido bagliore di una grande tradizione dinastica che con lui si chiude. Una tradizione che ha sempre vissuto all’ombra della fede cattolica e che ha trovato il suo emblema in quell’«A.E.I.O.U.», che correda gli stemmi con l’aquila bicipite e che è stato letto anche come «Adoretur Eucharistia In Orbe Universo», «Si adori l’Eucaristia in tutto il mondo». Carlo è l’ultimo sovrano, insieme forse a re Baldovino I del Belgio (1930-1993), a vivere la propria regalità con spirito cavalleresco e in lui si può vedere l’ultima incarnazione dell’ideale di sovrano cristiano.
Oggi Carlo non c’è più, l’Impero è scomparso, altri imperi sono sorti e sono tramontati in più o meno breve tempo, il mondo si è fatto piccolo, conosce altre sfide e preferisce altre soluzioni politiche.
Ma è davvero tutto finito, oggi, potremmo chiederci? Gli ideali temporali e ultraterreni che Carlo ha così bene incarnato si sono completamente esauriti, hanno perso oggi senso?
Certo, la condizione attuale non lascia intravedere molte possibilità di un ritorno degli imperatori cristiani, né lascia spazio a formule politiche tematicamente poste al servizio della verità e della Chiesa. Non coltivo dubbi: la civiltà cristiana che l’Occidente ha conosciuto, intesa come cultura cristiana che si fa istituzione, è definitivamente terminata.
Eppure, è un fatto — e non un caso — che la Chiesa riproponga oggi un modello d’impegno laicale e d’impegno laicale nella politica, come quello di Carlo, esortandoci a seguirne le orme.
È altrettanto un fatto, tuttavia, che quando, ai nostri giorni, si osservano le convulsioni finali di un nazionalismo perverso e rivoluzionario, la domanda d’istituzioni sovra-nazionali si ponga in maniera crescente. E questo è un dato positivo, a patto però che non si tratti di meri aggregati burocratici e anonimi, come tendenzialmente è l’Unione Europea, bensì di realtà politiche dalle identità «forti», plurali e integratrici proprio perché forti, che si candidino a una missione storica di civilizzazione, perché detengono un primato e hanno da offrire qualcosa di più, un valore aggiunto ai popoli — un’idea, un valore, una forza —, che con loro vengono a contatto.
Gli Asburgo furono in certa misura un esempio della possibilità di tutto questo, ossia di un potere su molti popoli esercitato al servizio dell’evangelizzazione e la cui idea-guida affonda le radici nel cattolicesimo. Non voglio con questo dire che devono tornare gli Asburgo, né che per essere cattolici bisogna per forza amare l’impero. Oggi la nostalgia per le forme e i protagonisti di un’epoca ormai storicamente chiusa è priva di senso. Ma considero legittima la nostalgia per l’essenza di quella che fu la cristianità europea, che è a sua volta legittima in quanto coronamento necessario — almeno in tesi, come finalità — dell’idea di regalità del Signore. Così non è illegittimo lavorare perché la nascita di entità sovra-nazionali rispetti determinati criteri: sia coerente con le radici cristiane dell’Occidente, abbia un profilo identitario forte, si attui attraverso un governo sempre meno impersonale, consista di un apparato limpido, onesto ed efficiente, come oggettivamente fu per lunghi periodi quello asburgico. Ciò che nascerà, se nascerà, avrà tuttavia le forme che la Provvidenza e la sensibilità umana vorranno far nascere…
Ma è ancor di più legittima e perenne la nostalgia della santità.
Carlo d’Austria, insieme a Thomas More (1478-1535), ci offre un esempio riuscito di uomo di Stato integro, disinteressato, formato alla retta politica all’interno di una tradizione e di una famiglia, nonché di uomo cristianamente santo, che si fa carico fino al sacrificio finale della sorte — e sì, diciamolo, anche delle anime, per quanto compete al ruolo del potere civile — dei suoi sudditi e cittadini. E non dimentichiamo che entrambi hanno offerto la loro vita — Carlo in maniera incruenta, Thomas sul patibolo — per tener fede a una promessa e per ribadire il legame a una legge che è più che umana, quasi che il «potere cristiano”, come dice il filosofo spagnolo del secolo XIX Juan Donoso Cortés (1809-1853), non possa andar esente da quella croce, che il cristianesimo porta inevitabilmente con sé.
(2) Ibid., p. 140.
(3) Notizie su questo personaggio ancora poco noto in Italia in <http://www.eurostudium.uniroma1.it/documenti/mercurino/>.
(4)Ibid., p. 141.
(5) Klemens Wenzel (o Clemens Wenceslaus) Nepomuk Lothar conte (dal 1813, principe) di Metternich-Winneburg zu Beilstein (1773-1859), conte di Königswart, seit 1818, duca di Portella, ministro degli Esteri e poi (1821) Cancelliere austriaco.
(6) Ibid., pp. 142-143.
(7) Mi pare opportuno aprire una parentesi a margine della parola «laicista». Il senso dei termini va sempre calato nel contesto dell’epoca in cui si svolgono i fatti cui il termine si riferisce. Così quando si dice «laicismo» si intende il laicismo «di allora», che rivendicava in certa misura la libertas dello Stato — in non pochi casi realmente violata, per ragioni storiche, dalle istituzioni ecclesiastiche —, un laicismo ben diverso da quello corrosivo e relativistico di oggi, in cui è in questione invece la libertas Ecclesiae. Nonostante il pluri-decennale conflitto giurisdizionalistico con la Chiesa romana e malgrado il pluri-confessionalismo dell’Impero, la Casa di Asburgo rimaneva profondamente cattolica. Per esempio, l’imperatore partecipava tutti gli anni ufficialmente a Vienna alla processione del Corpus Domini con in mano un cero. Quindi il percorso di formazione del futuro uomo di Stato mirava a che questi, nella sua azione politica, rimanesse scevro da vincoli troppo forti verso la Chiesa romana.
(8) Vigente lo stato di guerra, l’investitura imperiale in forma «liturgica» passò in secondo piano.
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