Verso un “totalitarismo lieve”…

Eugenia Sarigiannidis ci guida in un’analisi critica della nostra epoca, definita come un’era di transizione perpetua, dove la trasformazione digitale e ideologica ridisegna l’essenza dell’uomo e della società. Attraverso una riflessione sul ruolo della cultura woke e della cancel culture, l’autrice esamina il loro impatto sulla memoria storica, l’identità culturale e la coesione sociale, mettendo in evidenza i rischi di un “totalitarismo morbido” che plasma il mondo occidentale sotto l’egida del progresso e della ‘modernizzazione’.

Eugenia Sarigiannidis

Nel mondo occidentale percepiamo sempre più chiaramente di vivere in un’era di transizione. Qui, “trans” simboleggia un passaggio costante e perpetuo da una condizione all’altra. La trasformazione strumentale e digitale dell’uomo avviene a tutti i livelli, come ricorda lo psicologo sociale Doise: intraindividuale, interindividuale, intergruppo e ideologico. Questo stato di transizione, o trans-esistenziale, viene legittimato nella coscienza collettiva come qualcosa di apparentemente buono e progressista, finalizzato non solo a migliorare le condizioni di vita, ma anche a ridefinire il modello stesso dell’essere umano. Tuttavia, questa spinta include una serie di “meta” e “post” che caratterizzano la nostra epoca: meta-educazione, meta-uomo, meta-formazione, meta-società, post-democrazia, e così via.

Il “vecchio mondo”, con i suoi valori morali, le sue tradizioni religiose, le sue nazioni e collettività, le sue passioni e identità relativamente stabili, viene percepito da certi modernizzatori come qualcosa di anacronistico, da superare per poter “progredire”. I più romantici lo rimpiangono, ma alla fine rischiamo di dimenticarlo del tutto. È questa la lezione che ci impartiscono la “cultura del risveglio” (woke culture), che finge di lottare per un nostro “risveglio” cosciente, e la “cultura della cancellazione” (cancel culture), che condanna implicitamente tutta la storia, trasformandola in una narrazione inaffidabile da riscrivere secondo i canoni etici di chi detiene il potere politico e culturale.

La cultura della cancellazione e la cultura del risveglio agiscono come strumenti giuridici e sociali che rimodellano la memoria storica e la coesione socio-culturale. L’obiettivo è eliminare ogni traccia di ingiustizia politica e morale, trasformando il presunto abbellimento del dramma umano in una priorità politica per le élite moderne. Parallelamente, una “matita sveglia” riscrive storia e realtà secondo una visione ideologicamente filtrata, in linea con i dettami della cultura woke americana.

Questo processo influenza anche la produzione culturale globale, come dimostrano le piattaforme streaming. Nel 2016, l’allora ministro della Cultura russo, Medinsky, dichiarò: “Gli Stati Uniti sanno come entrare nelle case di tutto il mondo, presenti in ogni televisione grazie a Netflix, e da lì penetrano nella mente di ogni abitante del pianeta.” In sostanza, la cultura della cancellazione rappresenta una negazione della realtà, mentre la cultura del risveglio si presenta come un’illusione di fluidità, rivendicando il diritto di essere e fare tutto ciò che si desidera, senza limiti.

Negli Stati Uniti, queste nuove espressioni culturali hanno trovato un bersaglio ideale: l’uomo bianco. In Europa, culturalmente colonizzata, le versioni importate di queste culture hanno preso di mira:

  • Le coscienze non serializzate
  • Le determinazioni biologiche e storiche
  • Le radici
  • La storia
  • La memoria
  • Gli standard trascendenti
  • L’identità ortodossa
  • Tradizioni, usi e costumi

Si tratta, in altre parole, di una controrivoluzione politica e culturale che avviene sotto i nostri occhi da circa quattro decenni, in nome del progresso e della modernizzazione. Il successo di questa controrivoluzione passa attraverso la sistematica stigmatizzazione di ogni resistenza sociale e politica, etichettandola come reazionaria, populista o di estrema destra. Questo porta a screditare le proteste popolari che si oppongono alla decostruzione delle loro radici culturali e politiche.

Tale dinamica riflette gli interessi di un’élite internazionalizzata, che gestisce con arroganza il mercato globalizzato e il suo capitalismo sfrenato. Queste élite promuovono una propria religione: una pseudo-religione dei diritti umani e legali, che emerge come una nuova ideologia totalitaria del mondo occidentale. Questa ideologia tollera tutto, tranne il dissenso, e condanna ogni resistenza alle sue decostruzioni.

Come sottolinea Papamichail nel suo recente articolo “Qui un ‘estrema destra’, là un ‘populista’, che è il fascista?”, ci troviamo in una fase di “totalitarismo morbido”, in perfetta sintonia con le logiche del nuovo regime tecno-feudale globalizzato. Il totalitarismo non può essere compreso in astratto, ma sempre in relazione al suo obiettivo: l’allineamento assoluto della morale e dei comportamenti dei cittadini. Cambiano i mezzi, ma l’obiettivo rimane: legittimare misure di esclusione, sorveglianza e confinamento obbligatorio delle popolazioni, giustificate da emergenze di varia natura, come crisi sanitarie o climatiche.

Questo “totalitarismo lieve” richiama la “dittatura perfetta” descritta da Huxley: un sistema di schiavitù in cui, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi imparano ad amare la loro servitù.