Ha vinto l’America di Gran Torino

A poche ore dalla vittoria di Donald Trump qualche considerazione possiamo annotarla sul nostro taccuino, in attesa di dati e analisi più precise. Dopo l’esito del referendum sulla Brexit, un’altra sberla ha fatto girare la testa alle elites occidentali, sempre più cieche e sorde, ai mainstream media “militonti” e ai sedicenti “esperti”.

Trump ha vinto soprattutto perché non era Hillary, ma l’impresa non sarebbe riuscita a chiunque. Ci voleva qualcuno che rappresentasse una diversità irriducibile rispetto alla candidata democratica. Gli altri candidati Gop erano privi di carisma e troppo interni al “sistema”. Da totale outsider ha pagato in termini di voti la sua palese impreparazione e la sua rozzezza, ma contro Hillary ha potuto giocare fino in fondo, senza scrupoli, la carta dell’anti-establishment, dell’anti-sistema. E forse, considerando l’impopolarità e gli scheletri nell’armadio dell’ex segretario di Stato era la carta più importante da giocare per arrivare alla Casa Bianca. Gli altri candidati Gop ci sarebbero andati forse vicini, ma avrebbero condotto una campagna più “di testa” che “di pancia”, sarebbero rimasti nella “comfort zone” del loro partito, probabilmente scontrandosi con il problema della coperta troppo corta come Mitt Romney quattro anni prima.

È’ stato un voto non solo contro Hillary, ma contro il sistema mediatico, che agli occhi degli americani ha ormai raggiunto un grado di credibilità prossimo allo zero. I 57 endorsement per la Clinton contro i 3 di Trump non hanno spostato un voto. Anzi, la faziosità senza precedenti con cui giornali e tv hanno sostenuto la Clinton e demonizzato Trump ha semmai avvantaggiato quest’ultimo, secondo lo schema per cui se al centro della storia metti l’”eroe” aggredito da tutti, anche se “cattivo”, alla fine i lettori simpatizzeranno per lui. I media (figuriamoci quelli italiani, desiderosi di guadagnare punti agli occhi di una probabile amministrazione Clinton…) non si sono minimamente sforzati di capire il fenomeno Trump, ma solo di tifare in modo sfrenato per Hillary. Non dimenticheremo i dibattiti tv vinti 3-0… Bias, wishful thinking e state of denial sono stati gli ingredienti di una catastrofe senza precedenti dei media. Mesi a cercare di incastrare Trump con questa o quella gaffe (vera o pretestuosa), mentre il tycoon faceva arrivare efficacemente i suoi messaggi a un elettorato trasversale. Tutti a fare da comparse del suo reality…Altri due elementi chiave della sua vittoria, che in pochi ci eravamo permessi di evocare quasi clandestinamente mesi fa. La riconquista della “Rust Belt”, che non votava repubblicano dal 1984: in stati dove la delocalizzazione ha fatto più strage di posti di lavoro e di “identità industriale” il suo appello alla working class bianca ha funzionato. Così come ha giocato un ruolo quella ribellione contro il politicamente corretto che aveva già caratterizzato il successo della Brexit.

Sfidando su ogni aspetto il complesso di superiorità antropologica della sinistra, Trump è riuscito a tenere insieme il blocco tradizionale delle roccaforti repubblicane del Sud e del Midwest. Ma allo stesso tempo è stato capace di andare oltre la “grande tenda” del Gop: non sarebbe bastato infatti strappare la Florida, già di per sé un’impresa. I suoi messaggi “eretici” rispetto alle tradizionali posizioni repubblicane su Wall Street, commercio internazionale, industria, posti di lavoro persi, gli hanno permesso di strappare ai democratici tutti i principali stati industriali (o quasi ex industriali): Ohio, Wisconsin, Pennsylvania e forse anche Michigan. Dunque, stati agricoli e stati industriali. A portare Trump alla Casa Bianca è stata insomma l’America del “fare”, della (una volta grande) manifattura, di chi lavora (o lavorava) la terra e nelle fabbriche, la working class bianca del Paese, l’America lontana dalle metropoli glamour. L’America dei Walt Kowalski, il protagonista del fortunato film di Clint Eastwood che dopo una vita da operaio della Ford si è potuto permettere una Gran Torino del 1972, custodita gelosamente. Vedremo se un risveglio, o solo un colpo di coda della “vecchia America”…

Dalle colonne del Washington Post, lo scrittore Jim Ruth aveva ipotizzato l’esistenza di una “nuova maggioranza silenziosa”, una fetta importante della classe media americana a cui Trump non piace ma pronta a votarlo lo stesso, perché “ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul modello europeo, basata sul politically correct”. E’ un bullo, un demagogo, ma anche l’unico in grado di “preservare l’American way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia Trump”. E la via americana al benessere non prevede il doversi mettere in fila per ricevere dallo Stato qualche benefit di una sempre più misera redistribuzione della ricchezza, che è invece la via europea, ma la liberazione degli “animal spirits” affinché tutti abbiano almeno una chance per costruirsi da sé il proprio benessere.

L’altro fattore è la ribellione contro il politicamente corretto. La democrazia americana ha dato un segnale di straordinaria vitalità: milioni di elettori, quelli definiti “deplorables” (miserabili) dalla Clinton, hanno resistito alla pressione della condanna morale (“Trump e le cose che dice sono riprovevoli, quindi se lo appoggi non sei una persona degna, devi vergognarti”) esercitata da uno schieramento di forze imponente: le macchine da guerra del Partito democratico, dei Clinton e di Obama; la stampa americana e internazionale; Wall Street; gli opinion leader, il mondo accademico e lo star system; persino parte dell’establishment repubblicano. Al di là di qualsiasi giudizio di merito su Trump, una democrazia in salute, i cui elettori si sono mostrati in gran parte immuni al virus di quel “conformismo democratico” paventato da Alexis de Tocqueville.

Gli elettori non hanno dato peso alle sue gaffe, alcune vere altre preconfezionate dai suoi avversari. Anzi, proprio Trump che prende a pugni il politicamente corretto, e per questo viene sanzionato moralmente, demonizzato dai suoi avversari e dai media, ha rappresentato un riscatto per quanti non ne possono più di sentirsi istruiti su come “non sta bene” pensare, parlare o comportarsi (figuriamoci votare…). Il vendicatore di un elettorato bianco “nativo” (contrariamente alle aspettative anche femminile) per anni indicato come privilegiato e responsabile delle peggiori discriminazioni, passate e presenti, espulso dal discorso pubblico e da un’agenda politica ormai rivolta quasi esclusivamente all’integrazione di ogni genere di minoranza.

C’è una vera e propria ribellione nei confronti delle norme del politicamente corretto alla base del risentimento contro l’establishment che anima i sostenitori di Trump, ha scritto l’editorialista del New York Times Thomas B. Edsall. “L’avanzata del politicamente corretto è un grave rischio” per la civiltà occidentale, avverte lo storico Niall Ferguson, secondo cui l’”anti politicamente corretto” è il vero trait d’union tra l’insofferenza dei bianchi americani e la Brexit: “E’ la reazione di una fetta importante della società – ha spiegato in una recente intervista al Foglio – che ha la sensazione che qualcuno abbia scelto di rivoltarle il mondo contro. D’altronde in cosa consiste all’ingrosso il progetto progressista se non nel fatto di rendere le nostre società un po’ meno favorevoli all’uomo bianco medio che tanto se ne era avvantaggiato finora? Non ci possiamo sorprendere se oggi assistiamo al tentativo multiforme di combattere tale progetto”.

Sorgente The Right Nation: Ha vinto l’America di Gran Torino | RightNation

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