Una coalizione di menagramo sta trattenendo gli aiuti finché non sia caduto il regime di Assad. Così sarà la normale popolazione siriana a soffrire.
Di GEOFFREY ARONSON • maggio 2018
Traduzione: Gb.P.
Le bombe continuano a cadere sulla Siria nella costernazione di tutti gli interessati. Il presidente siriano Bashar al-Assad mette in guardia su un conflitto sul suolo siriano che coinvolgerà Israele, l’Iran e la Russia. “Le cose”, dice, “potrebbero andare fuori controllo”.
L’intensificarsi nei giorni recenti della violenza tra Iran e Israele è una chiara prova della reiterazione del messaggio “Assad deve andarsene” nella miserevole situazione della Siria.
Si potrebbe pensare che, dopo aver perso la guerra per il regime-change in Siria, Washington avrebbe intrapreso una revisione approfondita delle valutazioni errate e di una miriade di altri problemi che hanno prodotto la debacle in atto. Si sarebbe potuto pensare che almeno avrebbe cercato di elaborare una politica post-bellica per la Siria che la ripagasse dell’incredibile danno arrecato a quel Paese e ai suoi cittadini così a lungo provati.
Invece, gli Stati Uniti stanno replicando la loro campagna fallita contro Assad, mobilitando una coalizione internazionale per negare a lui e, cosa più importante, al popolo siriano gli strumenti per ricostruire. Le armi di questa battaglia non sono gli F-15 o i mortai, ma la negazione degli aiuti alla ricostruzione, i finanziamenti internazionali per la riabilitazione delle infrastrutture della Siria pubbliche e private e un reiterato regime di pesanti sanzioni, intese a sabotare la capacità della Siria di Assad e del suo decimato settore privato di riemergere dalle ceneri. Inoltre, c’è stato uno sforzo fragile anche se costoso, per creare, con il sostegno degli “amici della Siria” di Washington, qualcosa di diverso nelle regioni orientali del Paese al momento al di fuori del controllo del regime.
Questa politica meschina, che in effetti era stata annunciata quando il presidente Trump aveva detto a marzo che avrebbe messo “in sospensione” i 200 milioni di dollari di finanziamento per la ripresa in Siria, si basa sugli stessi presupposti che ci hanno animato da quando Assad è stato dichiarato persona non grata. E non ha più probabilità di successo rispetto ai nostri tentativi di cambio di regime.
Tuttavia, nel mondo di oggi niente ha più successo di un fallimento. L’amministrazione Trump sta cercando di costruire un consenso tra gli Stati Uniti e i suoi alleati in favore del proseguimento della guerra e del cambio di regime con altri mezzi, cioè, opponendosi al ritorno dei profughi dai campi in Giordania, Libano e Turchia, e ostacolando la capacità del regime, i suoi sostenitori e i Siriani in generale per risorgere dalle macerie.
“La ricostruzione e il sostegno internazionale per la sua attuazione sarebbero un dividendo di pace, molto potente, ma lo sarà solo una volta che una transizione politica credibile e inclusiva sarà in atto”, ha spiegato il capo della politica estera dell’UE Federica Mogherini, il 5 aprile durante una conferenza stampa.
Non importa che gli alleati degli Stati Uniti nella regione, in particolare il Libano, dove uno su quattro dei residenti è siriano, così come la Giordania, si lamentino del massiccio onere per l’accoglienza ai rifugiati. Queste nazioni sono ansiose, mentre le armi oltre il confine restano relativamente in silenzio, di rimpatriare i Siriani che hanno accolto.
Il primo ministro libanese Saad Hariri, nel suo intervento a Bruxelles, ha avvertito che la continua opposizione al rimpatrio creerà una diaspora siriana permanente e destabilizzante in Libano, non diversamente dai Palestinesi che vi hanno vissuto in un limbo dal 1948. “Il Libano è diventato un unico campo profughi “, si è lamentato Hariri.
Questa settimana il presidente del Libano Michael Aoun ha chiesto aiuto all’Egitto, all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti per assicurare il ritorno dei rifugiati siriani nel loro paese, “per mettere fine alle loro sofferenze da una parte e, dall’altra, per porre fine alle ripercussioni sociali, economiche ed educative, e in termini di sicurezza in Libano, dovute a questo spostamento”.
Anche la Turchia sta incoraggiando il ritorno di un’avanguardia di 3,5 milioni di rifugiati in aree lungo il confine ora sotto il suo controllo. “Risolveremo la questione Afrin, la questione Idlib, e vogliamo che i nostri fratelli e sorelle rifugiati ritornino nel loro Paese”, ha spiegato il presidente Recep Tayyip Erdogan all’inizio di quest’anno.
Il messaggio di Bruxelles non è stato incoraggiante. L’aiuto umanitario sarà disponibile, ma sarà probabilmente inadeguato finché gli USA e i suoi amici europei giocheranno a fare i guastafeste. Come il segretario agli esteri britannico Boris Johnson ha dichiarato: “Se vogliamo procedere con la ricostruzione della Siria, ci deve essere una transizione dal regime di Assad”.
Gli Stati Uniti sono un grande donatore di “assistenza umanitaria” ai Siriani sia all’interno che all’esterno del loro Paese, nelle aree sotto il regime e sotto il controllo dell’opposizione. La maggior parte della gente dimentica o non sa che gli Stati Uniti stanno conducendo attacchi aerei in Siria da anni. A settembre del 2017, ad esempio, gli Stati Uniti avevano lanciato 32.801 bombe sulla Siria, rispetto alle 30.743 nel 2016, aggiungendo così altre distruzioni alle infrastrutture siriane da quando è scoppiata la guerra civile nel 2011.
Tale “benevolenza umanitaria” fornisce pane quotidiano agli sfollati interni ad Aleppo e al campo di Zaatari in Giordania, ma esclude il sostegno alla ricostruzione della rete elettrica siriana, alla ricostruzione di strutture pubbliche e all’importazione di attrezzature agricole per sostenere la ripresa economica. La politica degli Stati Uniti mira a garantire che milioni di siriani non muoiano di fame, ma rifiuta il sostegno agli sforzi per consentire loro di nutrirsi da sè. Come questa “leva” si traduca nella cacciata di Assad è un enigma. Per orientarsi, basta guardare alla Striscia di Gaza, dove gli sfortunati abitanti sono stati sottoposti a una “dieta” supportata dagli Stati Uniti da quando Hamas ha assunto il potere più di un decennio fa.
C’è un insolito grado di unanimità a Washington rispetto a quello che di solito è un divisivo spartiacque politico, a sostegno di queste politiche sfortunate. La debacle della recente politica americana in Siria è sempre stata un affare bipartisan. Gonfiare il petto di fronte ad Assad è diventato uno dei pochi casi su cui regna il consenso politico. Pochi davvero vogliono mettersi dalla parte sbagliata degli angeli riconoscendo la forza di resistenza di Assad. Molti di meno sono disposti a suggerire che il riconoscimento di questa realtà deve essere la base per un nuovo sguardo della politica statunitense.
Invece, Washington applaude il passaggio della “No Assistence for Assad Act“, che è la versione del Congresso di mettere “uno stop” sui fondi per il recupero della popolazione siriana. Nelle osservazioni precedenti l’approvazione del provvedimento, il membro del Congresso Ed Royce ha spiegato:
Rappresentanti della Siria, dell’Iran e della Russia si stanno attivando verso tutta la comunità internazionale provando a raccogliere fondi per la ricostruzione. Non li troveranno qui!
Sarebbe irragionevole che i fondi del governo USA venissero utilizzati per la stabilizzazione o la ricostruzione nelle aree sotto il controllo del regime illegittimo di Assad e dei suoi alleati. Non appoggeremo la costruzione di infrastrutture a beneficio di Hezbollah, delle Guardie rivoluzionarie iraniane o delle milizie straniere reclutate e pagate dal regime iraniano.
Se – o quando – arriverà il giorno in cui il governo siriano non sarà più guidato da Bashar al-Assad e dai suoi alleati, allora gli Stati Uniti potranno guardare ancora una volta alla prospettiva dell’assistenza. Abbiamo un interesse a vedere un giorno una Siria stabile, sicura e non ostile.
Ma fino ad allora, chiedo che i membri si uniscano a noi per assicurarsi che nessun finanziamento americano sia nelle mani di Assad e dei suoi sodali.
Vi sono, tuttavia, altri “amici della Siria” – in particolare Russia, Cina, Iran, la maggior parte dei vicini della Siria e decine di nazioni minori – che hanno una visione diversa dei vantaggi della ricostruzione e delle opportunità economiche e di sviluppo che fornirà.
Secondo Wajih Bizri, presidente della Camera di Commercio Internazionale del Libano, i Libanesi stanno collaborando con le controparti siriane nel settore del turismo e in progetti commerciali. “Chiunque sia interessato ad andare in Siria non può aspettarsi che qualcuno arrivi e gli dica che tutto è assolutamente sicuro al 100% in Siria”, dice Bizri. “Sarà troppo tardi allora.”
Gli investimenti sono ben avviati nel porto libanese di Tripoli, a soli 28 chilometri dal confine siriano, per espandere la sua capacità di far fronte al previsto aumento delle importazioni per la Siria. Le aziende cinesi sono in primo piano in questo sforzo.
“Penso che sia tempo di concentrare tutti gli sforzi sullo sviluppo e la ricostruzione della Siria, e penso che la Cina svolgerà un ruolo più importante in questo processo fornendo più aiuti al popolo siriano e al governo siriano”, ha osservato Qi Qianjin, ambasciatore della Cina in Siria, a febbraio.
La stessa Russia ha riconosciuto il compito “colossale” di finanziare la ricostruzione della Siria, stimata in 250 miliardi di dollari. Senza la partecipazione occidentale, la riabilitazione sarà più lenta e più costosa, ma il treno ha ormai lasciato la stazione. Può essere rallentato, con grandi costi umanitari, ma non può essere fermato.
Geoffrey Aronson è presidente e co-fondatore di The Mortons Group e uno studioso non residente, presso il Middle East Institute.
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