La peste del 1629 in Italia

Molti dati interessanti. Tra l’altro si legge che le limitazioni in tema di pratiche religiose – in città come Milano dove morì il 46% della popolazione – erano minori rispetto ad oggi. Ovviamente le minori limitazioni di allora sono anche riconducibili all’assenza dei moderni mezzi di comunicazione. Tuttavia molto probabilmente il comune ‘sentire’ era molto diverso.

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Originale: Surviving the Plague

Nel freddo autunno del 1629, la peste arrivò in Italia.

La vita ordinaria fu sospesa durante l’epidemia. Le confraternite, le associazioni che riunivano laici per attività di carità e di socializzazione, non potevano più tenere riunioni. Erano proibite le prediche pubbliche. Le scuole della città furono chiuse. Le taverne e le osterie erano chiuse. Le bische e le botteghe dei barbieri erano chiuse, i giochi con la palla erano proibiti.

Francesco Rondinelli, storico contemporaneo della peste, ricordava che, senza una festa di carnevale, “non si giocava mai a calcio, nessuno andava in giro in maschera, e non si facevano commedie di nessun tipo, né spettacoli, né festeggiamenti… così durante l’estate non c’era il palio, il che implicava necessariamente una grande folla”. Anche i posti di lavoro erano chiusi. Anche le chiese erano chiuse e le messe erano proibite. I parroci stavano in strada per ascoltare le confessioni dei parrocchiani attraverso porte e finestre, coprendosi la bocca con un panno cerato per resistere ai “semi della malattia”. Agli angoli delle strade venivano costruiti degli altari portatili, in modo che la Messa potesse essere ascoltata in più strade contemporaneamente. La domenica mattina il sacerdote suonava un piccolo campanello per avvertire le persone confinate nelle loro case che la Messa stava per iniziare. La peste faceva sì che la vita fosse interrotta da barriere: i muri della casa, il lenzuolo cerato tra laico e sacerdote, il becco ultraterreno indossato dal medico della peste mentre somministrava le medicine ai pazienti.

La Sanità, l’Azienda Sanitaria di Firenze, ha organizzato la consegna di cibo, vino e legna da ardere alle case dei quarantenati (30.452). Ogni persona in quarantena riceveva una diaria di due pagnotte e mezzo boccale di vino. La domenica, il lunedì e il giovedì veniva data loro la carne. Il martedì ricevevano una salsiccia condita con pepe, finocchio e rosmarino. Il mercoledì, il venerdì e il sabato venivano consegnati riso e formaggio; il venerdì un’insalata di erbe dolci e amare. La Sanità ha speso una quantità enorme di soldi per il cibo perché pensava che la dieta dei poveri li rendesse particolarmente vulnerabili alle infezioni, ma non tutti pensavano che fosse una buona idea. Rondinelli registrò che alcuni fiorentini dell’elite temevano che la quarantena “avrebbe dato ai poveri la possibilità di essere pigri e di perdere la voglia di lavorare, avendo provveduto per quaranta giorni abbondantemente a tutte le loro necessità”.

Anche la fornitura di medicinali era costosa. Ogni mattina, a centinaia di persone nei lazzaretti, centri di quarantena per malati e moribondi, venivano prescritti intrugli di triaca, liquori misti a perle macinate o scorpioni schiacciati e cordiali amari al limone. La Sanità devolveva alcuni compiti alle confraternite della città. I confratelli di San Michele Arcangelo condussero un’indagine sulle abitazioni per individuare possibili fonti di contagio; i membri dell’Arciconfraternita della Misericordia trasportavano gli ammalati in salici profumati dalle loro case ai lazzaretti. Ma è stato soprattutto il governo della città a pagare il conto.

Ma la Sanità – avvalendosi delle proprie forze di polizia, del tribunale e del carcere – puniva anche chi infrangeva la quarantena. Il suo tribunale ascoltò 566 casi tra il settembre 1630 e il luglio 1631, con la maggioranza dei trasgressori – il 60 per cento – arrestati, incarcerati e poi rilasciati senza multa. Un ulteriore 11 per cento fu imprigionato e multato. Da un lato, alla maggior parte dei trasgressori furono risparmiate le pene più dure, la punizione corporale o l’esilio. Dall’altro, essere imprigionati nel bel mezzo di un’epidemia di peste era potenzialmente letale; e le multe comminate contribuivano al bilancio operativo del sistema sanitario pubblico. La generosa spesa della Sanità in cibo e medicine suggerisce compassione di fronte alla povertà e alla sofferenza. Ma è stata gentilezza, se quelle insalate e quelle salsicce sono state in parte pagate dalle stesse persone disperate che erano destinate ad aiutare? Le intenzioni della Sanità possono essere state virtuose, ma sono state tuttavia plasmate da una percezione intrattabile dei poveri come spensierati e pigri, opportunisti che hanno approfittato dello stato di emergenza.

La malattia si affievolì all’inizio dell’estate del 1631 e, a giugno, i fiorentini scesero in strada per partecipare alla processione del Corpus Domini, ringraziando Dio per la loro tregua. Quando l’epidemia finì, circa il 12% della popolazione di Firenze era morto. Si trattava di un tasso di mortalità notevolmente inferiore a quello di altre città italiane: a Venezia il 33 per cento della popolazione; a Milano il 46 per cento; mentre a Verona il tasso di mortalità era del 61 per cento. La malattia era meno virulenta a Firenze o le misure della Sanità hanno funzionato? Le percentuali ci dicono qualcosa sul vivere e sul morire. Ma non ci dicono molto sulla sopravvivenza. I fiorentini hanno capito i pericoli, ma hanno comunque giocato con la loro vita: per noia, desiderio, abitudine, dolore. Per capire cosa significa sopravvivere, potremmo fare meglio a osservare Maria e Cammilla, le sorelle adolescenti che hanno ballato durante l’anno della peste.

– Tratto da “Inclined to Putrefaction” di Erin Maglaque, London Review of Books

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